Tutti suoni delle Nazioni

Il Festival a Città di Castello

Recensione
classica
Un inizio piuttosto soddisfacente quello del Festival delle Nazioni, che nella suggestiva cornice di Città di Castello e di altre stupende località dell’Alta Valle del Tevere continua ad attirare un notevole pubblico, grazie a proposte di alto livello artistico e ben assortite nella loro articolazione. Un pubblico che – come spiega il direttore artistico Aldo Sisillo – ha certamente la sua solida base a livello locale, ma include anche non pochi stranieri, diversi dei quali peraltro sono ormai residenti in Umbria o nella vicina Toscana. “Le nuove normative in tema di sicurezza – sottolinea Sisillo – hanno limitato ulteriormente i posti disponibili, impedendoci in molti casi di soddisfare le richieste di biglietti”. Certo così è più facile raggiungere il ‘sold out’, ma lasciare a bocca asciutta spettatori che magari sarebbero disposti a fare un viaggio per arrivare a Città di Castello non è il massimo – mi fa capire il direttore artistico – specie quando poi il dato numerico grezzo riguardante il pubblico va selvaggiamente a incidere nell’erogazione dei finanziamenti pubblici.

Aldo Sisillo firma quest’anno la sua fortunata decima stagione, ma l’anniversario che salta agli occhi è un altro, quello dei cinquant’anni di questo Festival, mezzo secolo durante il quale, come mostrano gli archivi fotografici, sono saliti sul palco di Città di Castello artisti tra i maggiori a livello internazionale. L’edizione 2017, partita lo scorso 29 agosto, sta proponendo un omaggio alla Germania, a conclusione di un trittico nato sulla scia delle celebrazioni per i cento anni dalla Grande Guerra e che ha visto pertanto Francia e Austria protagoniste nei due anni precedenti. Ancor più che il concerto inaugurale, con la Jugendorchester der Bayerische Philharmonie diretta da Henri Bonamy, è stato il concerto di giovedì 31 agosto ad attirare un grande pubblico nella grande Chiesa di San Domenico, protagonista una sempre affascinante Ute Lemper, col suo spettacolo intitolato Berlin Kabarett Songs. Memoria soprattutto di una Germania che dalla Grande Guerra usciva con profonde ferite e iniziava un drammatico percorso che sarebbe sfociato nella dittatura e nel successivo conflitto mondiale. Concerto caratterizzato dalle sonorità, a dir poco seducenti, prodotte da Vana Gerig al pianoforte e Victor Villena al bandoneon, giocando sulle quali la Lemper ha letteralmente incantato il pubblico presente, passando con grande disinvoltura e abilità dalle famose canzoni tratte da L’angelo azzurro di Joseph von Sternberg ai toni più rudi e ironici delle celebri opere nate dal sodalizio tra Bertold Brecht e Kurt Weill. Cercando di rievocare il fascino della Dietrich ma anche la graffiante voce di Lotte Lenya, Ute Lemper si è divertita anche a interpolare la musica con vari commenti, ricordi, citazioni, non ultime le ironie sul contrasto tra la sacralità del luogo a confronto con gli ambienti pieni di fumo e di alcool nei quali veniva invece rappresentato quel repertorio. Scelta di musiche più che centrata, movimenti e passi di danza attentamente calibrati, capacità di sussurrare le parole passando indifferentemente dal tedesco all’inglese, dal francese all’italiano, Ute Lemper si è confermata perfettamente padrona del palcoscenico, regalando alla cittadina umbra una serata di particolare brio ma anche di profonda riflessione sulla società di un’Europa che, nel periodo in cui assisteva agli spettacoli cabarettistici, si preparava a un nuovo baratro bellico.

Come è tradizione, gli omaggi alle nazioni non esauriscono i temi che annualmente vengono proposti a Città di Castello, temi in cui la musica contemporanea ha solitamente un posto di riguardo. Quest’anno l’occasione è stata offerta anche dal desiderio di festeggiare i settant’anni di Salvatore Sciarrino, presente al concerto che si è svolto il 1 settembre nelle sale degli Ex Seccatoi del tabacco (quelle che ospitano la Collezione Burri), dove il Quartetto Prometeo ha proposto un programma equamente ripartito tra alcuni lavori del compositore siciliano e quel capolavoro di Ravel che è il Quartetto in fa maggiore. Serata particolarmente suggestiva, col pubblico che gremiva quella sala che pareva fatta apposta per accogliere ed esaltare tutte le possibilità espressive che una simile formazione può regalare. Complice ovviamente la grande abilità musicale che gli interpreti italiani hanno confermato di possedere da tempo. Non sarà mai abbastanza superfluo ricordarlo: pretendere di far suonare un quartetto d’archi in ambienti molto più grandi è come mettere un pesce di acqua dolce in mezzo all’oceano, col solo risultato di rendere spesso insignificante quella forma compositiva nella quale invece molti compositori hanno saputo sperimentare la loro capacità di scrivere musica, come se stessero a distillare un liquore pregiato per pochi intenditori. Sobria ma al tempo stesso pienamente espressiva l’esecuzione che Rovighi, Campanari, Piva e Dillon hanno offerto del lavoro scritto da Ravel, mentre nel Quartetto n. 7 del compositore siciliano si sono mostrati in piena confidenza con una scrittura musicale complessa e rarefatta al tempo stesso. Bis dedicato allo stesso protagonista con cui, misteriosamente, si era aperto il concerto, quel Domenico Scarlatti al quale Sciarrino ha posto mano trascrivendo per quartetto d’archi – ne L’Esercizio della stravaganza – alcune sonate per clavicembalo. Col risultato di creare un curioso effetto metatemporale: musica di inizio ‘700 trascritta quasi trecento anni dopo, sembrava alla fine pescata da quel repertorio quartettistico in cui si cimentarono Boccherini, Haydn e poi Beethoven. Effetto particolarmente applaudito dal pubblico presente, al pari degli altri brani in programma.

Operazione più complessa quella proposta l’indomani, nell’Auditorium di Santa Chiara a Sansepolcro. Ma stavolta ecco rientrare in gioco la nazione omaggiata, anche se la figura celebrata apparteneva a una Germania di tutt’altro periodo, ovvero quel XII secolo in cui Hildegard von Bingen ricopriva la carica di badessa del Convento di Rupertsberg. Dedicato alle “turbatissime visioni” di questa grande donna, incentrato sui due momenti chiave della partenza dell’amata allieva Richardis – alla quale dona le pergamene del suo sapere – e della disobbedienza al Vescovo di Magonza, il testo preparato da Guido Barbieri ha visto l’apporto musicale di Francesco Maria Paradiso (e per il prologo di Luigi Sammarchi) in una performance ideata da Federica Lotti, solista al flauto, insieme al soprano Pamela Licciarini e alla elegante voce recitante di Emanuela Faraglia. Stefano Alessandretti e Massimo Marchi si sono occupati della programmazione e regia del suono, ma il loro apporto nel live electronics è risultato molto meno incisivo di quello che probabilmente ci si poteva aspettare. Il fluttuare delle voci, della narrazione – suggestivo il testo di Barbieri – e dei suoni del flauto si sono sovrapposti in modo da puntare non tanto a una piena comprensione del racconto quanto piuttosto a una suggestione complessiva, nella quale sembrava aleggiare davvero lo spirito di Hildegard, il dramma delle sue scelte, la tenerezza dei suoi insegnamenti alla diletta Richardis. Con un effetto che sarebbe probabilmente stato ancor più efficace con una più incisiva presenza dell’elettronica, magari avrebbe potuto sollevare il flauto, dal compito di essere l’unico, onnipresente, strumento generatore di suoni.

Ancora sabato 2 settembre, un appuntamento serale nel cortile del Castello Bufalini a San Giustino è stato dedicato al Beethoven liederistico, efficacemente raccontato in uno spettacolo il cui testo e la drammaturgia complessiva sono stati ideati da Francesco Sanvitale. L’attore Giampiero Mancini, con la sua calda voce, ha preso per mano il pubblico e, attraverso le confidenze del nipote del grande Ludwig, lo ha condotto attraverso pagine meno note del musicista tedesco, con un’attenzione particolare agli arrangiamenti di folk songs che egli realizzò per George Thomson di Edimburgo. Anche tornare a Beethoven, nel quadro dell’omaggio alla Germania, è stata occasione in questo caso per un percorso musicale meno battuto ma, al contempo, di grande interesse e delicata espressività, fermo restando che l’appuntamento finale con l’ultima sinfonia beethoveniana, in programma sabato prossimo, rappresenta di sicuro un qualcosa di imperdibile per tutti gli appassionati che stanno seguendo la manifestazione. Tutti gli altri appuntamenti in programma sono elencati sul sito del festival (www.festivalnazioni.com/edizione-2017/) ma intanto non posso non concludere menzionando il toccante spettacolo di ieri sera, in cui è stato proposta in prima italiana la più recente versione di “War Work: 8 Songs with Film”: Michael Nyman sul podio insieme alla sua band e al contralto Hilary Summers per una serata che ha amplificato la memoria di quella Grande Guerra che il Festival ha ricordato nelle sue ultime tre edizioni.

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