Tutti i pubblici di C2C

Reportage da Club to Club 2023, da Flying Lotus a Caroline Polachek

C2c
Recensione
oltre
Lingotto, Torino
C2C 2023
03 Novembre 2023 - 04 Novembre 2023

Alla fine si può dire che C2C abbia vinto la sua scommessa anche quest’anno: passato lo scoglio del ventennale nella scorsa edizione, e ritrovatosi per il 2023 con un programma intrigante ma – francamente – sulla carta meno di richiamo rispetto agli anni passati, la selezione di “avant-pop” del festival torinese è riuscita comunque a riempire il Lingotto (se vale l’impressione di chi, come me, lo ha visto molto più vuoto in edizioni anche più ricche). 

– Leggi anche: Guida a C2C 2023

C’era invece, per le due serate di venerdì e sabato, un pubblico numeroso e vario: giovane, internazionale, queer ma anche – ed è un segno che sempre di più si ritrova nei festival che offrono una curatela di musica “avventurosa”: ne avevo parlato qui – adulto, e all’apparenza piuttosto square (mi includo in queste due categorie). Di gente che magari si colloca ai margini della calca per non farsi spintonare, che sorride un po’ imbarazzato – ma in fondo anche lusingato («Pensa che sia ancora giovane!») – al venditore di pasticche all’ingresso, che più che ballare ciondola (ancora, mi includo in questa categoria).

In realtà, una full immersion in festival come C2C porta a qualche riflessione sull’esperienza-festival nell’era di Spotify e di TikTok. È evidente che il pubblico – e insieme a esso la musica che ascolta – è cambiato, e che dunque sta anche cambiando il modo di compilare il programma di un festival.

Da una parte c’è l’hype, ed è un meccanismo che Club to Club ha sfruttato con una certa malizia da subito (appunto, da quando tutti lo chiamavano Club to Club): intercettare quei progetti di cui si parla tanto, che i trend setter internazionali hanno pompato o stanno pompando anche oltre il lecito.

Dall’altra c’è, invece, una logica di ascolto sempre più frazionata, fatta di comunità digitali più o meno piccole che possono fare la fortuna di un musicista, mentre lo stesso rimane per il resto del mondo (anche degli addetti ai lavori) poco più di uno sconosciuto. In questo, C2C pure sa muoversi con intelligenza, intercettando spesso cose interessanti.

Infine – somma di tutte queste logiche, e di altre – c’è il rapporto di fiducia. Chi va a C2C ci va con aspettative e agende molto diverse, ma sa che possono comunque essere soddisfatte: chi vuole ballare, ballerà; chi vuole rimorchiare, non tornerà a casa da solo; chi vuole semplicemente esserci (anche questa è una dinamica potente, nell’economia dei festival) riaffermerà il suo capitale sociale e culturale insieme alle giovani élite urbane progressiste.

Chi è curioso della musica che gira intorno, per passione o per professione, pure sa che si porterà a casa qualcosa anche nelle possibili delusioni (ancora, avrete capito che mi includo in quest’ultima categoria).

Veniamo allora a quanto ascoltato – non tutto a fuoco, non tutto convincente, tutto però – questo sì – incredibilmente interessante, per una ragione o per l’altra.

Sarà la poca aspettativa, ma eleggo a mia rivelazione dell’anno Marina Herlop, fra le prime a salire sul palco il venerdì. In quartetto con un percussionista e due cosplayer di se stessa, la musicista catalana è autrice di una musica incredibilmente interessante, soprattutto dal vivo e soprattutto grazie al lavoro di incastro delle tre voci femminili, che si spingono in polifonie e poliritmie vocali piuttosto complesse. Se invece di una angelica giovinetta con una pettinatura alla Star Wars e un abito alla Björk ci fosse un capellone brufoloso, saremmo ai confini di un prog rock un po’ tamarro (vengono in mente i Mars Volta ogni tanto)… se non che non ci sono chitarre elettriche ma pianoforte e incastri di synth, glitch, sequenze angolose e instabili. Ingredienti tutti noti, ma il mix è fresco, e funziona molto bene.

La stessa cosa non riesce invece, per lunghi tratti, a Lucrecia Dalt (me ne perdo l’inizio perché impegnato a litigare con il braccialetto: saltate direttamente al PS per la solita invettiva). La formula della musicista colombiana, affinata nell’ottimo ¡Ay! del 2022, mescola sinuosi ritmi latinoamericani con voci ora sussurrate ora distorte, glitch, percussioni. In alcuni momenti l’esito è di grande fascino, fra echi operistici e voci che paiono filtrare da un passato di dischi a 78 giri. La sequenza è però ripetuta sempre uguale: ritmo; costruzione a strati sonori; percussioni che svarionano; stop di colpo, e alla lunga mostra la corda.

C’è tempo per passare una mezz’oretta a sentire il set di Space Afrika, che tritura Dizzee Rascal e trap in un (esaltante) vortice scuro e carico di effetti, prima della (presunta) headliner della serata, Caroline Polachek, trentasettenne di New York recentemente salita sugli scudi della stampa specializzata più hip grazie all’album Desire, I Want to Turn Into You. Una «Kate Bush per la generazione Z», ha scritto “The Guardian”. A me sembra di più una Irene Cara per i pischelli hipster – con tutto il rispetto per Irene Cara e per i pischelli.

Hype a parte, francamente, rimane davvero poco: la voce non è particolarmente interessante, né lo sono le canzoni o i suoni, che pescano a piene mani dagli anni ottanta meno originali. Nell’introdurre “Sunset”, la nostra evoca presunte atmosfere siciliane nella composizione del brano – ma in realtà siamo dalle parti di un flamenco alla Lola Ponce. Anche il live e i visual, per quanto Polachek saltelli euforica in stile Flashdance con tutina nera, dopo un po’ annoiano. Il pubblico in ogni caso è al Lingotto per lei ed è felice. Molti conoscono le canzoni a memoria.

Si ritorna la sera dopo in tempo per il set di King Crule, fra i più partecipati. Dal vivo il cantautore londinese fa uscire al meglio le radici post-punk della sua musica, grazie a una band (chitarra, basso, batteria, synth e un sassofonista che nelle pause fa Mauro Repetto) affiatata e che picchia come un pugno. C’è però anche molto di brit nelle canzoni (a tratti sembra di avere davanti una versione più dark dei Blur degli esordi). Il live convince, anche se qualche pausa di troppo e un songwriting alla lunga un po’ monotono non aiutano a mantenere l’entusiasmo fino alla fine.

Un altro cambio di padiglione per Bambii, che racconta di come il dancefloor contemporaneo sia sempre più bulimico e in apparenza affetto da una sindrome da deficit di attenzione: il flusso è esaltante, e la giovane DJ canadese tiene il pubblico in pugno – ma si salta continuamente da un ritmo all’altro, da momenti afrobrasiliani a jungle d’annata, da casse dritte ad accelerazioni rave, come in un ricercato e continuo trainwreck.

In fondo è un po’ la stessa logica che presiede a molta della musica di Flying Lotus, l’attrazione principale della serata di sabato. Devo ammettere che non sono un grande fan del musicista losangelino, soprattutto degli ultimi lavori; allo stesso tempo, quel continuo cambiare atmosfera e temperatura della sua musica, come a voler sempre essere da un’altra parte, tanto mi suona stucchevole su disco quanto dal vivo, di fronte alla casse, si rivela esaltante. Nella prima mezz’ora c’è spazio per un bignami rapidissimo dell’ultimo album, fra atmosfere morriconiane e rapidissime sterzate black. Ellison si diverte, infila un momento trap (“Rick n Morty” di SwuM, accelerata – grazie Shazam) e si sposta sul proscenio per rappare sulla voce di Earl Sweatshirt.

Ormai è quasi mezzanotte ed è chiaro che la gente vuole ballare: «I’m From LA» dice. «We did all this west coast funk shit…». Parte allora una lunga sequenza di west coast funk shit, opportunamente trattata. È un viaggio fra molti suoni del dancefloor nero, fra tamarrate techno e voci quasi gospel. Ci si diverte, e il set scorre veloce. Arrivati alla fine, avanza un po’ di tempo: ancora una sequenza bulimica, che passa per alcuni brani (ormai) classici di Cosmogramma, del 2010, come “Zodiac Shit”, subito frantumata in glitch e frammenti ritmici. Si chiude saltellando su Thundercat, e tutti a casa.

PS: la consueta invettiva sui braccialetti. Già l’anno scorso la sete dei fan di avant-pop si era scontrata con il perverso meccanismo di pagamento dei bar del Lingotto. Lo riassumo – qui la versione estesa: obbligo di gestire tutto tramite QR code incorporato nel braccialetto; costo di ricarica del braccialetto a fondo perduto: 2 euro (più Paypal o commissione della carta); cauzione per il bicchiere, 2 euro; costo della prima birra: 11 token-euro; ricariche solo in multipli di dieci, nessuna somma fra consumazioni che fa un multiplo di dieci. Vi avanzano dei soldi alla fine? (È impossibile che non vi avanzino: quando restituite il bicchiere vi ricaricano la cauzione sul braccialetto, che è ormai inservibile, a meno di non voler farsi servire un gin tonic nella coppa delle mani). Nessun problema, potete chiedere un rimborso compilando un form online, entro dicembre recupererete i vostri spicci meno le spese bancarie…

Se rispetto all’anno passato almeno la qualità della birra e del cibo sono migliorate, quest’anno si aggiungono vari malfunzionamenti (ci sono decine di migliaia di persone: i telefoni non prendono bene e ricaricare il braccialetto è complesso e lentissimo), code di 20 minuti per restituire il bicchiere, baristi che non sanno come funziona il sistema (ho letteralmente attraversato il Lingotto con un “tecnico” per farmi servire una birra).

Insomma – meglio la musica.

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