Tutte le musiche di ChamoiSic
Il festival ChamoiSic - Altra musica in alta quota da Pupi Avati a Hedvig Mollestad
La tre giorni centrale della XIII edizione di ChamoiSic - Altra musica in alta quota – rassegna musicale (e non), ormai rinomata, grazie alla direzione artistica del trombettista torinese Giorgio Li Calzi, per l’ardita commistione di linguaggi, l’accostamento sperimentale di musiche ed espressioni artistiche differenti, e sempre più ramificata tramite una serie di virtuose alleanze, sinergie di forze, in una sorta di più ampio ed ideale territorio, compreso tra la Città Metropolitana di Torino, il biellese, il cuneese, e la Valle d’Aosta – si è aperta e chiusa con un omaggio al cinema.
Ad inaugurare la tre giorni, organizzata dall’Associazione Culturale Fonosintesi, in collaborazione con il Comune di Chamois, è stata, infatti, nel pomeriggio di venerdì 22 luglio, l’attrice e doppiatrice torinese Elena Canone, che ha saputo ridare vita e voce ad alcune delle più indimenticabili e sofferte protagoniste del cinema autorevole, introspettivo, indagatore del profondo, del geniale regista svedese Ingmar Bergman.
Una produzione originale, quella portata in scena dalla brava ed ispirata Canone, dal titolo She-Bergman, che è stata in grado di fare letteralmente tornare alla mente i dialoghi, le atmosfere dense e fantasmatiche, i volti angosciosi ed enigmatici, i primi piani persi ed allucinati, delle inquiete protagoniste di alcune indimenticabili pellicole del celebre cineasta nordico, quali Persona, il capolavoro Sussurri e grida (riflessione sul punto di morte, al tempo di un presente continuamente divorato da un passato, che non smette mai di riaffiorare in superficie), e il non meno valoroso, per quanto manieristico e tardo, Sinfonia d’autunno (che non si può non ricordare per quel suo breve puntuale “libretto di istruzioni”, ad un certo punto dello sviluppo narrativo, indicativo di come si dovrebbe suonare la musica lieve e delicata, e però non leziosa, di Fryderyk Chopin).
Canone era accompagnata, nell’occasione, dalla suggestiva, drammaturgica, evocativa, musica elettronica realizzata in tempo reale dalla talentuosa compositrice e sound artist torinese Sara Berts, e dal musicista e sound designer Paolo Della Piana, già componente della cult band Larsen.
A chiudere la tre giorni, invece, nella giornata di domenica 24, è stato un partecipato incontro con il decano del cinema italiano Pupi Avati (a fine settembre in uscita nelle sale cinematografiche con il suo, a lungo sognato e progettato, film biografico su Dante). Grande appassionato di musica, di jazz, dixieland e moderno in particolare, clarinettista mancato in giovane età – decise di rinunciare alla musica dopo aver sentito suonare Lucio Dalla, intuendo immediatamente di non aver sufficiente talento, per stare al passo –, Avati in oltre due ore di affabulatoria conversazione con Giorgio Li Calzi ha saputo ripercorrere, con buona dose di ironia, i passi salienti della sua vicenda artistica, e ricostruire le tappe fondamentali del suo stretto legame con il jazz, specie con la musica del genio incompreso, purtroppo prematuramente scomparso, Bix Beiderbecke.
A incorniciare idealmente le parole di Avati sono state le note dell’Eleonora Strino Trio (Eleonora Strino, chitarra, Giulio Corini, contrabbasso, Mattia Barbieri, batteria), feat. Emanuele Cisi al sax tenore, che ha saputo eseguire alla perfezione, con sentimento e perizia tecnica (la giovane Strino, per esempio, appassionata di Wes Montgomery, è una chitarrista armonico-cromatica decisamente sofisticata, a tratti mirabolante), alcune celebri ballad indicate dallo stesso regista bolognese: da “I Remember You” a “These Foolish Things”, da "Polka Dots and Moonbeams" alla sempre coinvolgente “The Nearness of You”, passando per “Where or When” di Richard Rogers, e fino ad arrivare alla celebre, ritmata, ellingtoniana, vivacemente martellante, “It Don't Mean a Thing”. A mancare è stata forse solo una bella versione di “Body and Soul”, anch’essa protagonista di quel piccolo grande capolavoro del cinema italiano che è stato Regalo di Natale.
Ma fulcro di quest’ultima rassegna musicale in alta quota è stata senz’altro la giornata di sabato 23, che ha visto avvicendarsi sul palco della piazza principale di Chamois due formazioni di indubbio valore, interpreti di formule musicali davvero pregevoli, singolari ed avvincenti.
Stiamo parlando del folto gruppo radunato attorno alla voce desertica, minerale, pulviscolare, della magnetica cantante di origine nord africana Souad Asla (nativa di Bechar, nel Sahara algerino nord occidentale, oggi residente in Francia, ed impegnata in quest’unica data italiana, dopo la sua acclamata partecipazione al Torino Jazz Festival di un paio d’anni fa); e soprattutto del pirotecnico trio di Hedvig Mollestad, tra le formazioni di punta dell'etichetta nordica Rune Grammofon, appunto capitanata dalla funambolica chitarrista norvegese Edvig Mollestad, al primo concerto in Italia, realizzato in collaborazione con la Reale Ambasciata di Norvegia a Roma.
Asla ha proposto una musica elettroacustica screziata, caleidoscopica, composita, riflessiva e al tempo stesso vivace, vitale, quando non “danzereccia”, all’intelligente riepilogativo crocevia (proprio come il suo carovaniero deserto d’origine, affacciato sull’Atlante marocchino, e in bilico tra Magreb e Sahel) tra antiche influenze berbere, gutturali inflessioni islamiche, sonorità saheliane (o meglio ancora subsahariane), richiamate da ellittiche e vorticose circonvoluzioni chitarristiche, oltre che dagli avvincenti sfalsati ritmi dell’ipnotica tradizione gnawa (della cui cultura nera la Asla è una fiera discendente) e da più occidentali cadenze pop.
Hedvig Mollestad Thomassen, invece, sul palco come una sorta di appassionante marziana guitar heroine, con tanto di luminescente “tuta spaziale”, del terzo millennio, coadiuvata dai fidati, inesauribili, iperdinamici e progressivi Ellen Brekken a basso/contrabbasso e Ivar Loe Bjørnstad alla batteria, ha avuto modo di presentare, per la prima volta in Italia, a tratti ritrovandosi letteralmente a suonare in mezzo a un pubblico stupefatto ed entusiasta, la propria innovativa e acrobatica sintesi di rock blues e jazz rock, per altro senza perdere nulla della propria micidiale energica padronanza strumentale. Un’esibizione altamente spettacolare, decisamente impressionante, prevalentemente incentrata sulla musica adrenalinica degli ultimi due album del terzetto (Ding Dong. You’re Dead. e Smells Funny).
La giornata di sabato si è poi conclusa in bellezza, grazie all’elegante esibizione, presso il locale Chez Pierina, della sontuosa vocalist di origini ghanesi Ginger Brew, la quale, sostenuta dai puntuali Riccardo Ruggeri alla tastiera e Alessandro Majorino al contrabbasso, ha avuto modo di dispiegare al meglio tutta la sua delicata classe da valorosa cantante di soul, jazz e rhythm and blues, intrisa di illuminata soulfullness.
Con la sua voce calda, morbida e sgranata, Brew ha saputo reinterpretare autorevolmente, con assoluta suadente naturalezza, una manciata di celebri standard, tra cui le splendide “Moondance”, “Unforgettable”, “Autumn Leaves”, “What A Wonderful World”, e soprattutto l’intensa, significativa, dolorosa, “Four Women” di Nina Simone.
Insomma, una tredicesima edizione di ChamoiSic che, come al solito, ha saputo non deludere le attese.
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