Tutte le donne di Salisburgo
Salome, L’incoronazione di Poppea e The Bassarids al Festival di Salisburgo
Chissà se c’entra il #MeToo che continua a mietere le sue vittime illustri anche nel mondo musicale ma raramente si era vista una tale concentrazione di donne castratrici sulla scena di Salisburgo. E anche quando le donne cedono il passo agli uomini, questi non ne escono davvero benissimo. Si veda il pochissimo rassicurante Flauto magico, unico titolo mozartiano del festival 2018 (incidentalmente messo in scena da una regista donna, Lydia Steier) che rovesciava le prospettive convenzionali e infieriva come mai su un inaspettatamente crudelissimo Sarastro, domatore e padrone di un circo con clown assassini nell’infuriare delle violenze della grande guerra.
Se la Regina della notte non è davvero un esempio di madre modello, che dire di Agave, la madre omicida del figlio Penteo? Certo in quella orrenda esibizione della testa mozzata del figlio, c’è lo zampino di Dioniso, che con lei perpetra la sua tremenda vendetta sull’arrogante quanto ingenuo sovrano di Tebe. E quando ci si mette di mezzo un semidio, e per di più edonista e sensuale come Dioniso, c’è poco da difendersi, specie quando qualcuno osa mancare di rispetto a mamma Semele. Nell’allestimento delle Bassaridi di Henze – che tornava nel luogo della sua creazione a 52 anni di distanza, ma questa volta nell’inglese originale di Wystan Hugh Auden e Chester Simon Kallman – il regista di Krzysztof Warlikowski piazza la salma di Semele ben in vista in un sacello di vetro zeppo di fiori, come fosse una santa venerata dalle folle. Come sempre Warlikowski infarcisce di citazionismo cinematografico lo spettacolo, che si svolge fra gli interni borghesi dalle moderne e essenziali linee disegnati dall’inseparabile Małgorzata Szczęśniak e distribuiti sull’intera lunghezza della vasta scena della Felsenreitschule: c’è, e molto esplicito, il Visconti de La caduta degli dei, c’è il Pasolini di Salò ma anche di Teorema, nell’enigmatica figura dello straniero che scompagina le regole del gioco borghese e devasta le vite in bilico delle sue vittime. La cinefilia di Warlikowski si traduce anche nell’uso generoso di proiezioni (curate da Denis Guéguin) proiettate sull’altissima parete di roccia che chiude la scena, piuttosto efficaci nel rendere la grandiosa incombenza del divino sui destini degli umani.
Davvero sontuosa era l’esecuzione musicale, che vedeva impegnati i Wiener Philharmoniker diretti dall’analitica bacchetta di Kent Nagano, capace di esaltare il cerebrale lirismo celato nelle pieghe del linguaggio musicale henziano e di sottolinearne la chiara discendenza mahleriana. Evidentemente scelta con un occhio alla resa scenica, la lunga locandina funzionava benissimo anche sul piano musicale. Lo straniero (Dioniso) era il giovane tenore Sean Panikkar, seducente nell’aspetto così come nella voce fin dalla sua prima aria “How fair is wild Cytheron”, cantata dall’alto delle gallerie scavate nella roccia, intonatissima alla natura divina del personaggio. Non meno efficaci le prove di Russell Braun, un Penteo tormentato e infine vittima (cosciente?) della seduzione del dio, e di Tanja Ariane Baumgartner, un’Agave di sensualità decadente, strumento inconsapevole al servizio di Dioniso e Venere nella lasciva pantomima concepita dal dio. Fra gli altri si distinguevano i camei di lusso quelli di Willard White, un Cadmo ancora fiero ma impotente davanti ai tragici eventi, di Nikolai Schukoff, un vanesio Tiresia, Anna Maria Dur, una Beroe carica di toccante umanità.
Teste mozzate anche nella Salome, enigmatico e disturbante “Gesamtkunstwerk” di Romeo Castellucci ancora alla Felsenreitschule, per l’occasione trasformata in grande catino di pietra, chiusi i fornici delle gallerie scavate nella roccia, con un pavimento d’oro regale e uno squarcio nel tetto che mostra il cielo. Tradotto: nella cisterna del profeta ci siamo tutti, anche noi spettatori. Il sipario chiuso che cela alla vista il grande spazio vuoto recita “Te saxa loquuntur”, di te parlano le pietre, come sulla Siegmundstor, la porta del tunnel che penetra nel Mönchsberg a pochi passi dal Festspielhaus. Impenetrabile come la pietra è la principessa pallida secondo Castellucci, vestita di bianco viriginale sporcato da una grande macchia di sangue mestruale o – chissà? – traccia di una violenza. Da una pietra Salome è inghiottita mentre attende in posizione sacrificale, su una pietra, il suo sacrificio danzando immobile per soddisfare il desiderio del patrigno. Impenetrabile è l’oggetto del suo desiderio: nerissimo è Jokanaan, che, come una macchia, si espande fino a coprire l’immensa parete di roccia, e nero è lo stallone che emerge dal nero della cisterna. Un desiderio incontenibile e testardo come un capriccio infantile ma inappagato fino all’estremo. Anche a lei, impenetrabile oggetto del desiderio maschile che la circonda in una sorta di massa informe e dall’identità indistinta, verrà negato l’appagamento del desiderio: a lei verrà porto il corpo nudo ma privo di testa (e dunque privo di sguardo e di quella bocca che lei vuole baciare) del profeta.
Asmik Grigorian era la straordinaria protagonista, perfettamente aderente alla complessa natura del personaggio, infantile e perversa, eppure capace di mantenere una disperata purezza. La sua interpretazione, anche e soprattutto vocale, era di quelle destinate a lasciare un segno. E volava così alto da ridurre tutti gli altri interpreti a un livello di comprimari, pur con ottime qualità. Era il caso per Gábor Bretz, uno Jochanaan di solide capacità ma ridotto quasi a pura presenza vocale, di John Daszak, un Herodes esagitato ai limiti delle proprie possibilità, di Anna Maria Chiuri, una Herodias fin troppo controllata, e di Julian Prégardien, un Narraboth introverso e dal colore del crepuscolo. Strepitosa anche l’esecuzione musicale guidata da Franz Welser-Möst alla testa dei Wiener Philharmoniker. Mancava forse l’orgia sonora della brillante orchestrazione straussiana ma dominava come in Henze una chiarezza analitica del complesso intreccio di linee strumentali, restituite con magistrale chiarezza. Se la celebre danza dei sette veli restava un po’ sottotono, il lungo monologo finale di Salome era da togliere il fiato per la tensione e l’intensità drammatica che il direttore riusciva a costruire grazie a una rara alchimia fra orchestra e protagonista.
Lontanissimo per temperie culturale ma anche per efficacia drammatica il terzo ritratto femminile della scena salisburghese, quello della Poppea monteverdiana. Qui le teste restano tutte ben piantate sul collo, ma non meno violenta è l’irrefrenabile scalata al potere dell’amante di Nerone, che comunque una testa, quella della rivale Ottavia, la ottiene. Un barocchista doc e fra i più celebrati fra i moderni pionieri del genere come William Christie, un ensemble glorioso come Les Arts Florissants, un cast vocale sontuoso sulla carta non bastavano a far funzionare una macchina che stentava a decollare. Con la sua direzione composta e levigata Christie puntava, come sempre, sul classico, ma la protagonista, Sonya Yoncheva, belcantista di ottime qualità, appariva estranea al mondo musicale monteverdiano per una vocalità troppo corposa, un certo eccesso temperamentale e qualche evidente smagliatura stilistica. Inevitabilmente stride il confronto con i molti “specialisti” nel cast. Non convinceva troppo nemmeno Kate Lindsey, un Nerone visibilmente sopra le righe e dalla linea di canto spesso forzata. Molto meglio, invece, Carlo Vistoli, un Ottone davvero notevole per gusto e misura, Stéphanie d’Oustrac, un’Ottavia di forte temperamento e dai molti colori, Renato Dolcini, un Seneca dai tratti decisi, e Ana Quintans, una Drusilla di salutare freschezza. Fra gli altri, si facevano distinguere per l’estro parodistico Dominique Visse e soprattutto Marcel Beekman, rispettivamente nei panni femminili di Arnalta e della nutrice di Ottavia.
Al debutto nella regia operistica, Jan Lauwers non rinunciava a essere soprattutto il coreografo che è. Affastellava una sostanziale linearità narrativa con coreografie per lo più ridondanti, che moltiplicavano i personaggi con doppi coreutici e danzatori in versione dervisci rotanti su una pedana al centro (l’immutabile corso e ricorso delle vicende umane?) Anche nei momenti più intimi, la scena, sostanzialmente vuota e interamente coperta da un’immagine che richiamava la fastosità di certi dipinti rinascimentali, era affollata dei giovani danzatori del Bodhi Project e dell’Accademia Sperimentale di Danza di Salisburgo con risultati che finivano per depotenziare l’infallibile efficacia drammaturgica del libretto di Busenello, che, anche a diversi secoli di distanza, continua a sorprenderci per la lucida e attualissima descrizione dei meccanismi del potere.
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