Turandot principessa immaginaria
Ad Amsterdam successo per l’opera di Puccini nel nuovo allestimento di Barrie Kosky con la direzione di Lorenzo Viotti
“Nel libretto dell’opera, si trovano molti riferimenti al sonno, ai sogni e all’insonnia. È emblematico che l’aria più iconica sia ‘Nessun dorma’. È il tipo di stato onirico centrale alla mia interpretazione: inquieta, incoerente e spaventosa”: non potrebbe usare parole più chiare Barrie Kosky per raccontare la sua Turandot, seconda tappa della trilogia pucciniana alla De Nationale Opera di Amsterdam inaugurata nella scorsa stagione con Tosca, andata in scena con grande successo e prime recite da tutto esaurito. In questa nuova Turandot non siamo nella Pekino al tempo delle favole né c’è spazio per cineserie o zeffirellate di sorta: gli orientalismi sono confinati nella buca dell’orchestra, dove Puccini la fa da padrone, mentre sul palcoscenico la musica è completamente diversa.
Si comincia nel buio più totale. E poi un filo di luce, che si fa via via più forte, illumina quella che si scopre essere una distesa di corpi immobili, immersi nel sonno. Siamo nella “gran beccheria” della principessa Turandot, nella visione registica entità immaginaria e immateriale (“Turandot non esiste! Non esiste che il niente nel quale ti annulli!”), smaterializzata in pura voce priva di corpo, pura proiezione delle paure e dei desideri collettivi della massa indistinta vestita con neri abiti anonimi da Victoria Behr (che invece libera la fantasia nei costumi da musical dei danzatori). Lo spazio è astratto: Michael Levine lo immagina plasticamente modellato da mobili pareti a specchio, impreziosite con effetti sempre sorprendenti dalle luci miracolose di Alessandro Carletti.
Ad Amsterdam l’ultima opera di Puccini va in scena senza intervalli, due ore filate che non vogliono interrompere la tensione di un’azione, come spesso negli spettacoli del regista australiano, quasi completamente costruita sulla massa di solisti, coristi e comparse sempre in scena e in movimento (le coreografie “movimentiste” sono di Otto Pichler). Nell’oscurità dell’inizio così come nelle brevi pause fra i tre atti, voci sussurrate, come in un luogo indefinito fra sonno e veglia, pronunciano parole prese dal libretto di Adami e Simoni, che, privo dell’azione lenitiva della musica pucciniana, esprimono tutta la violenza di cui sono portatrici: “vieni, amante smunta dei morti”, “straniero, ebbro di morte”, “qui si strozza! Si trivella! Si sgozza! Si spella! Si uncina e scapitozza! Si sega e si sbudella”. Se la principessa di gelo non compare mai in scena (nemmeno nella scena degli indovinelli, nella quale scende dall’alto un totem che ha la forma di un enorme cranio umano), Pang, Pong e soprattutto il gran cancelliere Ping sono presentissimi in scena e, per così dire, presiedono alla celebrazione iterata dei sacrifici umani con ostentata crudeltà e compiaciuto cinismo, tenendo la macabra contabilità delle vittime sacrificali al culto di Turandot attraverso i loro crani. Radicale ma coerente nei primi due atti, lo spettacolo di Kosky cede nel terzo a un certo gusto decorativista attorno allo sfoggio muscolare tenorile, come sempre attesissimo, del “Nessun dorma” con un colorato balletto floreale che ricorda le maschere del “día de muertos” messicano combinate in simmetrie coreutiche come nei vecchi musical americani degli anni Trenta. Si torna al rigore, invece, nel finale, che, dopo la morte di Lulu (tagliato, saggiamente, il roboante finale Alfano), chiude simmetricamente l’azione con il popolo di Pekino che, nuovamente sdraiato a terra, sprofonda nella tenebra del sonno dell’apertura.
I frenetici movimenti sul palcoscenico complicano parecchio il lavoro del direttore Lorenzo Viotti, che fatica non poco a tenere insieme le masse degli interpreti coinvolti. L’ottimo lavoro di concertazione sulla Netherlands Philharmonic Orchestra, in splendida forma per questo Puccini, si sente tutto, soprattutto nella sontuosa densità sonora e nella ricchezza di colori orchestrali. Ottima la prova, anche fisica, del Coro della Nederandse Opera, pilastro fondamentale nella riuscita dello spettacolo, e delle voci bianche (invisibili) del Nieuw Amsterdams Kinderkoor preparati rispettivamente da Edward Ananian-Cooper e Anaïs de la Morandais. Quanto ai solisti, sia la rocciosa Turandot, invisibile ma presente dietro le quinte, di Tamara Wilson che il muscolare Calaf di Martin Muehle si impongono soprattutto per il vigore vocale più che per la duttilità della linea del canto, mentre più delicata e ricca di sfumature è la Liù di Juliana Grigoryan. Funziona molto bene per affiatamento sia vocale che scenico il vivace trio di Germán Olvera, spietatissimo Ping e impassibile mandarino (con qualche problema a tenere il tempo), Ya-Chung Huang, vivacissimo Pang, e Lucas van Lierop, un Pong attraversato da un’apprezzabile vena lirica. Liang Li è un Timur emotivamente partecipe soprattutto scenicamente, e Marcel Reijans, confuso tra il popolo, presta la voce all’imperatore Altoum, che nella fantasia di Kosky ha le forme di uno scheletro-feticcio coperto di strass sollevato sopra la folla da un enorme gancio da macellaio.
Sala gremita, pubblico concentrato e silenzioso per due ore filate, molti applausi e chiamate solo alla fine. Un vibrante successo destinato a ripetersi, c’è da scommetterci, nella lunga serie di recite previste fin quasi a Natale.
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