Tra Verdi e Schiller
Parma: al via il Festival Verdi
Recensione
classica
Ormai da qualche anno a Parma l’arrivo del mese di ottobre coincide con l’avvento del Festival Verdi, manifestazione che sembra aver trovato ormai una dimensione stabile dopo diverse metamorfosi ormai consegnate a un passato più o meno remoto.
Tre le produzioni che ruotano attorno alla figura di Friedrich Schiller, scelto come tema principale per questo 2016:“Don Carlo”, andato in scena sabato scorso, seguito domenica 2 ottobre, da “Giovanna d’Arco”, mentre a chiudere questa trilogia schilleriana troviamo “I masnadieri”, titolo previsto per il 7 ottobre, che rinnova la collaborazione con la Scuola dell’Opera del Teatro Comunale di Bologna e con il Concorso Internazionale Voci Verdiane e proposto a Busseto nell’allestimento di Leo Muscato ripreso e diretto da Simon Krečič. Completa la programmazione operistica “Il Trovatore” (21/10) nel nuovo allestimento di Elisabetta Courir.
Ad arricchire questo mese verdiano troviamo diversi concerti e manifestazioni collaterali, tra cui la giornata di studi che si è tenuta nella mattinata di sabato presso il Ridotto del Teatro Regio titolata “Etica e strumenti nell’informazione e nella comunicazione giornalistica e dello spettacolo”, che ha proposto una serie di riflessioni e differenti punti di vista su una tematica tutt’altro che scontata, che ha visto interventi di Carlo Vitali, Mauro Balestrazzi, Susanna Franchi, Federico Capitoni e Gianluigi Mattietti, coordinati da Angelo Foletto e introdotti da un ricordo da parte di Gian Paolo Minardi di Vincenzo Raffaele Segreto, critico musicale e appassionato collega prematuramente scomparso e al quale è stato dedicato questo incontro. In coda a questo confronto, il direttore generale del Regio Anna Maria Meo ha annunciato in anteprima i quattro nuovi allestimenti previsti per il Festival Verdi 2017, che si svolgerà a Parma e a Busseto dal 28 settembre al 22 ottobre del prossimo anno: “Jérusalem” (28 settembre) e “Falstaff” (1 ottobre) al Teatro Regio di Parma, “La traviata” (29 settembre) al Teatro Verdi di Busseto, “Stiffelio” (30 settembre) al Teatro Farnese. Tra gli appuntamenti sinfonici, è stata annunciata anche la verdiana Messa da Requiem (7 ottobre), sempre al Regio.
Tornando alle prime due tappe del percorso dedicato quest’anno al poeta e drammaturgo tedesco – che prevede anche l’incontro “Giuseppe Verdi e Friedrich Schiller: affinità e intersezioni”, organizzato in collaborazione con Istituto nazionale di studi verdiani (11 ottobre) – abbiamo seguito sabato sera la “prima” di “Don Carlo” (dedicata a Daniela Dessì, che proprio a Parma aveva interpretato l'ultima edizione dell'opera 18 anni fa), in un nuovo allestimento firmato da Cesare Lievi, il quale ha sviluppato l’impianto oltremodo tradizionale della sua regia attraverso movimenti e azioni decisamente essenziali. Un dato che veniva confermato, in un’atmosfera generale tutta giocata sul bianco e il nero, anche dalle scene di Maurizio Balò (che ha curato anche i costumi), basate su pannelli tesi a rievocare il sepolcro marmoreo di Carlo V e poco altro, un ambiente ravvivato di tanto in tanto da variazioni sceniche quali un cielo plumbeo, un grande crocifisso borchiato, un vortice infuocato, una grande scalinata bianca. In questo contesto si muovevano i protagonisti: il Don Carlo di José Bros, che ha tratteggiato il personaggio con costanza superando alcune incertezze, l’Elisabetta di Serena Farnocchia, cresciuta nel corso dello sviluppo del dramma, il Filippo II autorevole e ben delineato di Michele Pertusi, il Rodrigo misurato di Vladimir Stoyanov, oltre a Marianne Cornetti che ha proposto una Principessa d’Eboli espressivamente un poco monocorde e Ievghen Orlov nei panni di un adeguato Grande Inquisitore. Alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini, Daniel Oren ha diretto l’opera nella versione in quattro atti del 1884 con un gusto a tinte forti, tutto giocato sui contrasti dinamici che ha posto in secondo piano alcune sottigliezze custodite dalla partitura.
La sera successiva, invece, siamo entrati nel suggestivo spazio ligneo del Teatro Farnese per il nuovo allestimento di “Giovanna d’Arco” firmato da Saskia Boddeke e Peter Greenaway. Qui la dimensione rappresentativa si è allontanata dagli impianti più tipicamente operistici per presentarci una lettura che ha immerso il lavoro verdiano in un contesto di teatro musicale multimediale dove l’aspetto visito ha allargato il proprio perimetro. Così le scene di Annette Mosk, le luci di Floriaan Ganzevoort e le proiezioni a cura di Peter Wilms e Elmer Leupen hanno dato forma alle visioni che il regista gallese ha condiviso con l’artista olandese, nutrite di icone mariane tratte da differenti tradizioni pittoriche, simboli delle diverse religioni, immagini di profughi (un’attualizzazione forse un poco forzata), effetti di videoarte e proiezioni laser che hanno ricamato sul legno delle scalinate del Farnese ambientazioni astratte e atmosfere visive sicuramente di grande impatto. Un carattere che ha posto in secondo piano il dato più prettamente drammaturgico-musicale, con i personaggi posti su una piattaforma al fianco dell’orchestra, le cui lente rotazioni accompagnavano le vicissitudini della protagonista interpretata con buon impegno da Vittoria Yeo, i cui turbamenti interiori sono stati qui amplificati da due “alter ego” che eseguivano le coreografie di Lara Guidetti, oltre che da un grande avatar tridimensionale proiettato sullo sfondo ad osservare ciò che succedeva sul palcoscenico. Tra gli altri protagonisti impegnati Luciano Ganci (Carlo VII) e Vittorio Vitelli (Giacomo), mentre il dato musicale è stato gestito da Ramon Tebar alla guida dell’orchestra I Virtuosi Italiani, i cui equilibri dinamici non sempre perfetti pagavano forse lo scotto della particolare acustica che caratterizza questo spazio. Solida presenza – qui come anche nel “Don Carlo” della sera prima – quella del coro del Regio preparato da Martino Faggiani. In entrambe le “prime” un pubblico da tutto esaurito ha mostrato, in generale, di apprezzare i due spettacoli, con qualche sparuta riserva che ha appena attraversato gli applausi rivolti al lavoro di Saskia Boddeke e Peter Greenaway.
Ad arricchire questo mese verdiano troviamo diversi concerti e manifestazioni collaterali, tra cui la giornata di studi che si è tenuta nella mattinata di sabato presso il Ridotto del Teatro Regio titolata “Etica e strumenti nell’informazione e nella comunicazione giornalistica e dello spettacolo”, che ha proposto una serie di riflessioni e differenti punti di vista su una tematica tutt’altro che scontata, che ha visto interventi di Carlo Vitali, Mauro Balestrazzi, Susanna Franchi, Federico Capitoni e Gianluigi Mattietti, coordinati da Angelo Foletto e introdotti da un ricordo da parte di Gian Paolo Minardi di Vincenzo Raffaele Segreto, critico musicale e appassionato collega prematuramente scomparso e al quale è stato dedicato questo incontro. In coda a questo confronto, il direttore generale del Regio Anna Maria Meo ha annunciato in anteprima i quattro nuovi allestimenti previsti per il Festival Verdi 2017, che si svolgerà a Parma e a Busseto dal 28 settembre al 22 ottobre del prossimo anno: “Jérusalem” (28 settembre) e “Falstaff” (1 ottobre) al Teatro Regio di Parma, “La traviata” (29 settembre) al Teatro Verdi di Busseto, “Stiffelio” (30 settembre) al Teatro Farnese. Tra gli appuntamenti sinfonici, è stata annunciata anche la verdiana Messa da Requiem (7 ottobre), sempre al Regio.
Tornando alle prime due tappe del percorso dedicato quest’anno al poeta e drammaturgo tedesco – che prevede anche l’incontro “Giuseppe Verdi e Friedrich Schiller: affinità e intersezioni”, organizzato in collaborazione con Istituto nazionale di studi verdiani (11 ottobre) – abbiamo seguito sabato sera la “prima” di “Don Carlo” (dedicata a Daniela Dessì, che proprio a Parma aveva interpretato l'ultima edizione dell'opera 18 anni fa), in un nuovo allestimento firmato da Cesare Lievi, il quale ha sviluppato l’impianto oltremodo tradizionale della sua regia attraverso movimenti e azioni decisamente essenziali. Un dato che veniva confermato, in un’atmosfera generale tutta giocata sul bianco e il nero, anche dalle scene di Maurizio Balò (che ha curato anche i costumi), basate su pannelli tesi a rievocare il sepolcro marmoreo di Carlo V e poco altro, un ambiente ravvivato di tanto in tanto da variazioni sceniche quali un cielo plumbeo, un grande crocifisso borchiato, un vortice infuocato, una grande scalinata bianca. In questo contesto si muovevano i protagonisti: il Don Carlo di José Bros, che ha tratteggiato il personaggio con costanza superando alcune incertezze, l’Elisabetta di Serena Farnocchia, cresciuta nel corso dello sviluppo del dramma, il Filippo II autorevole e ben delineato di Michele Pertusi, il Rodrigo misurato di Vladimir Stoyanov, oltre a Marianne Cornetti che ha proposto una Principessa d’Eboli espressivamente un poco monocorde e Ievghen Orlov nei panni di un adeguato Grande Inquisitore. Alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini, Daniel Oren ha diretto l’opera nella versione in quattro atti del 1884 con un gusto a tinte forti, tutto giocato sui contrasti dinamici che ha posto in secondo piano alcune sottigliezze custodite dalla partitura.
La sera successiva, invece, siamo entrati nel suggestivo spazio ligneo del Teatro Farnese per il nuovo allestimento di “Giovanna d’Arco” firmato da Saskia Boddeke e Peter Greenaway. Qui la dimensione rappresentativa si è allontanata dagli impianti più tipicamente operistici per presentarci una lettura che ha immerso il lavoro verdiano in un contesto di teatro musicale multimediale dove l’aspetto visito ha allargato il proprio perimetro. Così le scene di Annette Mosk, le luci di Floriaan Ganzevoort e le proiezioni a cura di Peter Wilms e Elmer Leupen hanno dato forma alle visioni che il regista gallese ha condiviso con l’artista olandese, nutrite di icone mariane tratte da differenti tradizioni pittoriche, simboli delle diverse religioni, immagini di profughi (un’attualizzazione forse un poco forzata), effetti di videoarte e proiezioni laser che hanno ricamato sul legno delle scalinate del Farnese ambientazioni astratte e atmosfere visive sicuramente di grande impatto. Un carattere che ha posto in secondo piano il dato più prettamente drammaturgico-musicale, con i personaggi posti su una piattaforma al fianco dell’orchestra, le cui lente rotazioni accompagnavano le vicissitudini della protagonista interpretata con buon impegno da Vittoria Yeo, i cui turbamenti interiori sono stati qui amplificati da due “alter ego” che eseguivano le coreografie di Lara Guidetti, oltre che da un grande avatar tridimensionale proiettato sullo sfondo ad osservare ciò che succedeva sul palcoscenico. Tra gli altri protagonisti impegnati Luciano Ganci (Carlo VII) e Vittorio Vitelli (Giacomo), mentre il dato musicale è stato gestito da Ramon Tebar alla guida dell’orchestra I Virtuosi Italiani, i cui equilibri dinamici non sempre perfetti pagavano forse lo scotto della particolare acustica che caratterizza questo spazio. Solida presenza – qui come anche nel “Don Carlo” della sera prima – quella del coro del Regio preparato da Martino Faggiani. In entrambe le “prime” un pubblico da tutto esaurito ha mostrato, in generale, di apprezzare i due spettacoli, con qualche sparuta riserva che ha appena attraversato gli applausi rivolti al lavoro di Saskia Boddeke e Peter Greenaway.
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