Torino Jazz Festival 1 | Tempo da jazz festival

Si è aperta la terza edizione: Trovesi, Ottolini, Daniele Sepe...

Recensione
jazz
Mentre l’espressione idiomatica «tempo da jazz festival» entra ufficialmente nello slang torinese per indicare quei tediosi giorni di pioggia di fine aprile, il Torino Jazz Festival ha aperto la sua terza edizione. Strali contro la rassegna voluta dall’assessore Braccialarghe ne sono stati lanciati molti, e anche da parte di firme autorevoli. Purtroppo, troppo spesso sono stati lanciati mirando male, non centrando l’aspetto cardine su cui il Torino Jazz Festival è oggettivamente “attaccabile”.

Al di là delle battute, del tempo - come ha detto giustamente il direttore artistico Stefano Zenni - si è fatto anche fin troppo parlare. Non è neanche una mera questione di (troppi) soldi, quanto piuttosto di condividere o meno scelte squisitamente politiche fatte da Comune e Assessorato circa la gestione degli eventi culturali. Scelte che – evidentemente – da qualche anno a questa parte privilegiano radicalmente un certo tipo di pubblico e un certo tipo di grandi eventi, a scapito di alcuni festival storici e, ben più grave, delle stagioni ordinarie. Rimando – in attesa di bilanci conclusivi su questa terza edizione – a quanto scrivevo l’anno scorso in chiusura di festival.

Rileggendo ora, non si può annotare con piacere come qualche passo in avanti sia stato fatto: ad esempio, alla direzione artistica va il merito di aver saputo scegliere con attenzione cosa funziona in piazza, e cosa funziona in teatro, con la consapevolezza che ogni musica ha bisogno dei suoi spazi adeguati. E che, anche allo scopo di “educare” il pubblico, è giusto farla pagare. Lo ha confermato da un lato il grande successo di pubblico (pagante) per il concerto di Dave Douglas e Uri Caine all’Auditorium Rai (rimando alla recensione di Daniele Martino), e dall’altro la splendida apertura in piazza con Gianluigi Trovesi e la Filarmonica Mousiké (al pomeriggio del 25 aprile) e con la Rote Jazz Fraktion di Daniele Sepe.

L’impronta bandistica della Filarmonica bergamasca ha riempito con efficacia i grandi spazi di Piazza Castello, venendo fuori al meglio – come era prevedibile – soprattutto sui pieni orchestrali (le escursioni dinamiche verso il piano, invece, tendevano a perdersi). L’intesa con Trovesi è rodata da lunga frequentazione, e il repertorio rimane in grandissima parte basato sul disco Profumo di violetta, uscito per Ecm nel 2008, con arie d’opera rielaborate e magnificamente orchestrate, da Monteverdi a Rossini. Il leader apre il concerto con una cadenza al clarinetto basso per introdurre l’aria della Tosca, con l’orchestra che “scarta” repentinamente e intona “Tanti auguri a te”, per il settantesimo compleanno del fiatista... il cui aplomb è appena increspato da un sorriso («Ho fatto una cadenza bellissima per la Tosca, che non riuscirò più a ripetere!» dice un po' sconsolato). In un ruolo spesso defilato, con tutto sommato pochi assoli (splendidi, soprattutto, gli interventi al clarinetto piccolo, che viene sfruttato in tutti i suoi registri), Trovesi lascia spesso la scena ai suoi compagni. Su tutti, Marco Remondini al violoncello, che con ampio uso di distorsioni, loop ed effetti – suonando spesso contro l’intera orchestra, arricchisce di una punta di ironia il progetto tutto (con tanto di citazioni hendrixiane durante la Cavatina di Figaro).



Dopo cena tocca a Daniele Sepe: la sua Rote Jazz Fraktion propone musiche di «gente che ha in comune l’aver resistito». Il pretesto è adeguato al 25 aprile, e riempie di gioia vedere accostati Zappa e Matteo Salvatore, Mingus e Pino Masi, gli Area e Victor Jara. L’alto tasso di elettricità e il virtuosismo sconfinano, a tratti, troppo nella fusion e in certi suoni, oggi, un po’ datati, ma il progetto è di grande interesse, soprattutto quando si applica a rileggere canzoni (in scaletta “Te recuerdo Amanda”, o “Padrone mio”, dal repertorio di Matteo Salvatore, o ancora la splendida “Ballata di Franco Serantini”). Sepe torna a casa per il bis, con una strepitosa versione di “Campagna” dei Napoli Centrale. Spazio anche per un intervento di Eugenio Allegri, in un omaggio a Gabriel García Márquez.



La pioggia della domenica – cessata al tramonto, poco prima del concerto di Al Di Meola non danneggia gli eventi al chiuso della giornata: al mattino, Marcello Lorrai ha raccontato il jazz sudafricano al Circolo dei Lettori, anche in presentazione degli eventi dedicati dei prossimi giorni. Nel pomeriggio, Luca Vitali ha presentato il suo libro Il suono del nord (Auditorium Edizioni) al Caffè del Progresso. I presenti hanno anche avuto la fortuna di vedere un bellissimo documentario di Audun Aagre sulla musica di Jon Balke, ospite del Fringe: 50 emozionanti minuti in cui il pianista e compositore ha spiegato la sua musica.

Poco tempo per spostarsi di un paio di isolati per quella che sulla carta era uno degli eventi da non perdere: la sonorizzazione di Le sette probabilità di Buster Keaton ad opera di Mauro Ottolini e i suoi Sousaphonix. Formazione stellare (fra i molti: Vincenzo Vasi, Paolo Botti, Danilo Gallo, Zeno De Rossi…) e ben rodata, i Sousaphonix si sono buttati sul capolavoro del 1925 con incredibile verve e genio creativo. Impianto da big band stile New Orleans, ma con continue citazioni, da canzoni d’epoca fino a Monk, e poi calchi “d’autore” (con testi curati da Ottolini e Vanessa Tagliabue Yorke), invenzioni, ironie didascaliche da “library music” (compreso un “sad trombone” accennato dal leader…) e puri momenti da foley artist (affidati, invece, al geniale Vincenzo Vasi). Il pubblico dell’Auditorium Rai premia con tanto di standing ovation.

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