Thais al Cabaret
L'opera di Massenet torna alla Scala dopo 80 anni
Per il pubblico scaligero Thais è una novità, perché l'unica volta che andò in scena al Piermarini fu nel febbraio 1942 (direttore Gino Marinuzzi, allestimento di Nicola Benois, protagonisti Mafalda Favero e Gino Bechi), ovviamente col libretto tradotto in italiano. Ottant'anni dopo sul podio c'è ora Lorenzo Viotti, a suo agio col repertorio francese, che ha calibrato alla perfezione la raffinata partitura di Massenet, dai concertini orientalisti ai pieni d'orchestra, ai momenti prettamente sinfonici, sempre con grande rigore e nitidezza. All'altezza del complicato ruolo di protagonista, Marina Rebeka, avvenente di aspetto e di vocalità sicura, capace di seguire anche nel canto la metamorfosi da prostituta a santa. Nei panni di Athanaël il baritono americano Lucas Meachem (in sostituzione di Ludovic Tézier bloccato dal covid), di bella presenza scenica, con talvolta qualche carenza di volume. Mentre Giovanni Sala è un Nicias degno di un cabaret berlinese d'anteguerra, abilissimo nel dar vita a un'icona di sfrenatezza gay, anche se poco attendibile per un amante della protagonista.
La regia è coerente con la scelta visionaria di Olivier Py, pur creando talvolta qualche problema allo spettatore, primo fra tutti l'aver trasformato i cenobiti in membri di una confraternita riformista, tipo Esercito della Salvezza. Se "lo spaventoso profumo della lussuria" faceva inorridire e poi sbarellare il monaco, non può aver presa su dei volontari che hanno contatto con la vita reale, distribuiscono pane ai poveri e non si scandalizzano certo davanti a una prostituta. Se nella città della dissolutezza Athanaël viene cacciato come cane puzzolente non può vestire una divisa impeccabile, dovrebbe portare un saio strapelato. Sempre nelle scene di Alessandria risultano ripetitivi e stucchevoli gli interventi delle fanciulle a seno nudo e degli efebi ancheggianti addetti alle pantomime del vizio, mentre è di grande impatto il tableau vivant della donna nuda sulla croce che cita Le tentazioni di sant'Antonio di Fèlicien Rots, come pure il corteo di mostri, maiale compreso, nell'ultimo atto che ricorda un pannello dell'altare di Grünewald. Un piccolo problema d'identificazione lo pone anche l'assenza dello specchio (ricorda alla protagonista l'imminente vecchiaia, di qui la speranza di ottenere grazie alla fede un'eterna giovinezza nell'aldilà), perché viene sostituto da un ballerino in abito rosso, più tardi incaricato anche d'impersonare la statuetta di Eros che lei vorrebbe portare in convento. La confusione non è da poco. Più chiara e incisiva invece la presenza costante della morte, che impersona la Charmeuse (Federica Guida), abbraccia Thais prossima alla redenzione e si accoccola accanto al suo letto di moribonda. Quanto alla scritta al neon della dantesca selva oscura rimane un'invadente didascalia, che rischia tra l'altro di dar maggiore importanza al percorso di redenzione della protagonista, mentre la vicenda si basa sullo scambio delle parti. I balletti previsti non sono stati memorabili, il che è sempre un vantaggio per lo spettacolo, nemmeno il pas de deux durante la Meditation (con Emanuela Montanari e Massimo Garon) che spiega come andrà a finire la faccenda.
A fine serata applausi per tutti, con particolare calore per il maestro Viotti, che ha meritatamente trovato alla Scala un buon numero di sostenitori.
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