Se Radames si innamora di una statua

L’Opéra national de Paris presenta una nuova produzione di Aida, in streaming per Arte (e qui)

Aida
Aida
Recensione
classica
Opéra national de Paris
Aida
18 Febbraio 2021

La nuova Aida prodotta dall’Opéra de Paris preclusa al pubblico e diffusa in streaming da Arte e attraverso il sito del gdm (si può vedere fino al 25 febbraio) capita nel bel mezzo del dibattito suscitato dalla pubblicazione del Rapport sur la diversité à L’Opéra national de Paris firmato dallo storico Pap Ndiaye e Constance Rivière, Segretario generale dell’Autorità francese per la difesa dei diritti, ispirato dall’ondata antirazzista seguita all’omicidio di George Floyd ma soprattutto al manifesto sottoscritto dai dipendenti dell’Opéra che invitava gli organismi dirigenti a “far uscire la questione razziale dal silenzio che la circonda all’interno dell’Opéra de Paris.”

Che ogni opera d’arte sia frutto del proprio tempo è fin troppo ovvio, e mettere sul banco degli accusati chi quelle opere le ha firmate usando il metro di giudizio contemporaneo è operazione ideologicamente discutibile. E tuttavia proprio Aida nasce da una commissione del vicerè egiziano, suddito dell’Impero Ottomano, per celebrare l’apertura del nuovo teatro del Cairo, dopo il rifiuto di Verdi a comporre musica d’occasione per celebrare la grande impresa compiuta a Suez nel 1869 dalla franco-egiziana Compagnia del Canale. La guerra franco-prussiana ritardò il progetto che finalmente andò in scena nel previsto Teatro del Khedivé del Cairo nel 1871 secondo quando convenuto, cioè un’opera egiziana esclusivamente storica con scene basate su descrizioni storiche e costumi ispirati ai bassorilievi dell'alto Egitto. Insomma, un trionfo del gusto coloniale dell’epoca, che oggi evidentemente pone più di un problema a voler trattare la materia senza il necessario distacco critico.

Un problema che la giovane regista scelta per questo allestimento, l’olandese Lotte de Beer, affronta attraverso la chiave della rappresentazione europea dei popoli colonizzati ma con sguardo critico e fin troppo dissacrante. Dissacrante è anche la scelta di ambientare in un museo la vicenda amorosa della schiava etiope Aida, qui un reperto archeologico animato da una piccola squadra di marionettisti, e dell’eroe Radames, tronfio ufficiale dell’esercito del Secondo Impero, contrastato dalla gran dama Amneris. Dissacrante al limite dello sfottò è naturalmente la marcia trionfale la cui enfasi bellicista è ridicolizzata in una sequenza di frenetici tableaux vivants costruiti a vista, un bric-à-brac citazionista che è il trionfo della celebrativa retorica accademica di molta pittura francese dell’Ottocento maturo ricostruiti dall’estro della “visual artist” Virginia Chihota e della fantasiosa costumista Jorine van Beek. Come spesso le produzioni “a concetto” anche questa Aida firmata Lotte de Beer soffre di non pochi vuoti di idee compensati da un onesto mestiere e qualche buona trovata, come l’interazione fra interpreti e marionette per Aida e Amonasro, che però alla lunga si rivela piuttosto meccanico. Alla de Beer va comunque riconosciuta una cifra autorale di spessore nel quadro finale, nella quale Radames, abbandonata la divisa, in un cupo mondo di ombre vaganti, fra i resti di quelle che verosimilmente sono anche le sue vittime, ritrova finalmente la donna che fino a quel momento non era che un fantasma.

Sul piano musicale è soprattutto la direzione di Michele Mariotti a dare lustro a questa produzione, grazie a un gusto impeccabile e a un prezioso equilibrio fra la cura dei dettagli strumentali nelle pagine più intimistiche e il respiro grandioso dei momenti ispirati al gusto del grand-opéra. La sua lunga esperienza nel repertorio melodrammatico si coglie anche nella pulizia stilistica imposta alla compagnia di canto, che ha in Sondra Radvanovsky un’Aida vocalmente solida, nonostante qualche incrinatura nella tessitura più acuta, e decisamente spinta sul versante drammatico. Il Radames di Jonas Kaufmann lascia trasparire ormai più di una smagliatura sul piano vocale ma il timbro è quello di sempre come l’accattivante presenza scenica. L’Amneris di Ksenia Dudnikovaha buone qualità vocali e un bel timbro luminoso ma difetta sul piano interpretativo, mentre l’Amonasro di Ludovic Tézier è interprete sanguigno e autorevole. Riuscite anche le prove del re di Soloman Howard, del Ramfis di Dmitry Belosselskiy, del messaggero di Alessandro Liberatore, e particolarmente della sacerdotessa di Roberta Mantegna. Fondamentale il contributo del notevole Coro dell’Opérapreparato da José Luis Basso, in questa produzione in scena e con mascherina.

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