Se il destino è un buco nero

Metha sul podio e Carlus Padrissa alla regìa firmano a Firenze una Forza del destino dalle molte ambizioni mancate. Saioa Hernandez e Roberto Aronica sono Leonora e Alvaro, ma la vera sorpresa nel cast è il baritono, Amartuvshin Enkhbat

Forza del destino
Forza del destino
Recensione
classica
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Forza del destino
04 Giugno 2021 - 19 Giugno 2021

A  giudicare dagli applausi finali distribuiti a tutto il cast e all’affetto immutabile tributato a Zubin Mehta quando è apparso alla ribalta, sarebbe una bella edizione della  Forza del destino, questa che è andata in scena il 4 al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, per l’edizione numero 83 dell’omonimo festival. Anche le contestazioni allo spettacolo, realizzato da alcuni componenti storici della famosa Fura dels Baus, erano, alla fine, pareggiate dai consensi. Forse non eravamo in molti nel pubblico a ricordare, ad aver visto e sentito a Firenze il meglio che poteva dare l’abbinamento Mehta-Fura, nel Ring fiorentino di tanti anni fa, ed è stato deludente ritrovare, ci è sembrato, così sbiaditi e depauperati, così prevedibili, certi spunti visuali e concettuali di allora, tipici della Fura, in questa Forza, firmata, come detto, da alcuni fra i componenti storici del celebre gruppo catalano: il regista Carlus Padrissa, scene, costumi, luci e video di Roland Olbeter, Chu Uroz, Franc Aleu. Il Ring wagneriano può essere certamente letto come una saga fantasy, e del resto allora tutto questo era fresco, nuovo, ammaliante, i video dall’effetto tridimensionale, le macchine e strutture sceniche fantastiche mosse dai grueros. La Forza del destino no, Verdi no. Troppo poco metafisico, troppo umano.

   Qui il destino è un buco nero che varca i limiti spazio-temporali, sulla base di riflessioni metafisiche e scientifiche (espresse nel programma di sala nello scritto di Michele Salimbeni Metafisica, destino e tempo) su cui non ci pronunciamo, ma, diremmo, già ampiamente trivializzate (viene in mente il film Insterstellar). E così, se il primo atto si svolge nel Settecento, là dove Verdi l’aveva immaginato, il secondo e il terzo ci catapultano in un futuro da fantascienza popolato di astronauti alla ventura, e il quarto invece ci porta in una preistoria alla 2001 Odissea nello Spazio, in cui fra Melitone, adesso sfoggiante una chioma irsuta da cavernicolo, anziché dar minestre, spolpa un grande animale e distribuisce ai mendicanti gigantesche ossa-clave del tipo di quella con cui si affronteranno Alvaro e Carlo nel duello finale. Ciò in base alla convinzione di Albert Einstein, proiettata avanti scena a beneficio di chi non se la ricordasse (al pari di altri “chiarimenti” filosofici e scientifici), che “la quarta guerra mondiale sarebbe stata combattuta con pietre e bastoni”. Potremmo accettare questo e altro, ma ci sembra che lo stile di Padrissa e C sia oramai declinato in chiave di effettistica, oltretutto svolta in una forma e con mezzi che ci sono apparsi tutto sommato piuttosto grami (tubi fluorescenti e simili), e che oramai non possa che cedere le armi alla forza evocativa - per chi la sente e la subisce, s’intende - del cinema e delle serie fantasy-fantascientifiche: non c’è gara. Non che non ci siano cose belle, ma sembrano un po’ raccolte qua e là, come la sagoma della nave-destino che rimanda forse a E la nave va di Fellini, dove non a caso si sentiva suonare la celebre sinfonia della Forza.

   Anche la componente musicale non era al meglio, sotto la direzione blanda e un po’ piatta di Zubin Mehta, che ci è sembrato mancare l’obiettivo principale dell’interprete della Forza, la messa in luce della sua vivida varietà nell’alternanza fra la tragicità della vicenda principale, per cui mancava l’affondo, e le note brillanti e comiche delle scene dell’osteria e del campo di Velletri, per cui mancava, appunto, la brillantezza. E per conseguenza anche orchestra e coro non erano al meglio, ma abbiamo da citare come nota positiva i bellissimi assoli di clarinetto di Lorenzo Paini. Nel cast, Roberto Aronica era un Alvaro complessivamente soddisfacente ma non ammaliante, la pur lanciatissima Saioa Hernandez esibiva degli splendidi acuti di forza, ma non ha evidenziato né una particolare empatia con il personaggio di Leonora, né una vocalità rifinita e maturata quanto basta per uscire veramente bene da una pagina come “Pace, mio Dio”.  Una nota più che positiva, la vera sorpresa del cast, è stato il don Carlo di Vargas del giovane baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat, perfetto nell’ unire un timbro di autentico baritono verdiano con un equilibrio tecnicamente molto ben calibrato di ruvidezza e morbidezza. Molto bene anche la Preziosilla di Annalisa Stroppa e il Fra’ Melitone di Nicola Alaimo, tutti e due in gran forma vocale e scenica, e forse erano i soli a sembrare del tutto a loro agio, e persino divertiti, in questa messinscena. C’erano poi il veterano Ferruccio Furlanetto come Padre Guardiano, e bene anche  i molti comprimari fra cui citiamo almeno il Marchese di Calatrava di Alessandro Spina. Repliche il 7, 10, 16 giugno alle 19, il 19 giugno alle 15,30.

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