Sardelli scolpisce Mozart nel marmo
Ottimo successo a Firenze per La clemenza di Tito importata da Parigi e con Federico Maria Sardelli sul podio
L’allestimento della Clemenza di Tito dell’Opera di Parigi è stata importata dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino che l’ha mandata in scena giovedì, con la regia di Willi Decker ripresa da Rebekka Stanzel e Federico Maria Sardelli sul podio.
Era una classicità stilizzatissima e monumentale, un emiciclo sghembo con un grande blocco marmoreo che scena dopo scena si sbozza e rifinisce, fino ad assumere le previste sembianze di una monumentale testa cesarea, a ricordarci appunto il Metastasio poeta cesareo, autore di un dramma nato nel 1734 che agli Asburgo, nel 1791, quando per un’incoronazione a Praga commissionarono l’opera a Mozart (che si servì peraltro della radicale revisione del testo metastasiano di Caterino Mazzolà), doveva apparire ancora attuale. Ma forse non al compositore, sembra sospettare la regia, che infatti si fa beffe della regalità con una corona da festicciola di bambini, e non perde l’occasione di inserirvi elementi di altra natura e addirittura da dramma giocoso, dalle marsine settecentesche a certe interazioni fra Servilia e Vitellia che sembravano arieggiare Susanna e Marcellina, ai cortigiani nerovestiti, una congrega di maligni intriganti alla don Basilio, anzi quasi da Cavaliere della Rosa, e qui il gioco, peraltro un po’ insistito, funzionava bene anche grazie agli stupendi costumi neri, da bacchettoni di rango e vecchie dame che la sanno lunga, tutti in fantastici copricapi e coiffures imperiali, di John Macfarlane, che firmava anche le scene.
E infatti una delle note salienti dello spettacolo, fra monumentalità e umanizzazione, sta forse nel suggerire questo conflitto fra una forma – l’opera seria – da cui Mozart qui prende congedo, e le tinte più calde e vibranti di altre sue creazioni, un conflitto che va dal Serio Sublime estremo e quasi survoltato di Vitellia a colori più tenui e malinconici. Però anche la Clemenza vibra, soprattutto nello straordinario tratteggio della coppia Vitellia-Sesto, la dominatrice deprivata della regalità che non sa se ammazzare Tito o sposarlo, e l’ eroe della sottomissione amorosa. Vitellia qui era Roberta Mameli, una dark lady con tanto di guanti alla Rita Hayworth, più imperiosa che imperiale nel concetto registico, che vocalmente ci è piaciuta molto per prestanza e per incisività di fraseggio, evitando con prudenza nella sua grande scena del secondo atto l’affondo in quelle note gravi che se prese troppo di petto, letteralmente e metaforicamente, producono quelle risalite faticose e stridule che ci è capitato di ascoltare fin troppe volte. Aveva accanto come Sesto Giuseppina Bridelli, di non grande peso vocale ma intensa, stilisticamente impeccabile e rifinita. Bene anche Annio e Servilia, Loriana Castellano e Silvia Frigato.
Quanto a Tito diremmo che Antonio Toti, vocalmente e scenicamente, con il suo colore vocale più ottocentesco, ma ben amministrato, ha lavorato molto bene per dar vita ad un personaggio che però ci è sempre sembrato nato morto, legato com’è ad una visione drammaturgica e politica oramai usurata. Brava l’orchestra, che ha fatto propria la visione di un direttore nato antichista e vivaldiano come Federico Maria Sardelli, con le sue linee asciutte ma anche con le sue vivide e repentine accensioni.
A governare i recitativi ma anche ad arricchirli con fantasia c’era, al fortepiano, Simone Ori, Riccardo Crocilla era il clarinetto di bassetto e il corno di bassetto nelle arie di Sesto e Vitellia. Ottimo successo e repliche il 22, 24 e 27 marzo.
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