Salisburgo dall’inferno al paradiso

Novità di Puccini, Janacek e un inedito dittico Bartók-Orff di ottimo livello sia musicale che scenico al Festival di Salisburgo oltre alla ripresa dello scatenato Rossini di Pentecoste

Suor Angelica (Foto Monika Ritterhaus)
Suor Angelica (Foto Monika Ritterhaus)
Recensione
classica
Salisburgo
Salzburger Festspiele 2022
18 Luglio 2022 - 31 Agosto 2022

Mentre nei paesi di lingua tedesca l’estate della ritrovata normalità e dei grandi festival è stata segnata dal naufragio del nuovo Ring des Nibelungen al Festival di Bayreuth affidato al giovane regista austriaco Valentin Schwarz e soprattutto dal vivace dibattito che ne è seguito se non sia giunto al capolinea un certo modo di concepire la messa in scena dei classici, Salisburgo ha presentato una stagione finalmente degna di quel centenario mortificato dalla pandemia. Significativamente ispirata al viaggio di Dante dall’inferno (delle chiusure pandemiche) al paradiso (della ritrovata libertà), l’edizione annuale del festival ha inanellato un’impressionante sequenza di autentici trionfi, riuscendo brillantemente a far quadrare il cerchio di un necessario rinnovamento senza cedere a eccessi iconoclasti e curando la qualità musicale, sempre eccellente.

Se la lirica continua a esercitare una forte attrazione sul pubblico è anche per il divismo. E diva indiscussa a Salisburgo da anni è Cecilia Bartoli, che tornava sulla scena dell’Haus für Mozart per la consueta ripresa della produzione del suo personale Festival di Pentecoste, quest’anno il rossiniano Barbiere di Siviglia. Festeggiatissima la produzione targata “Cecilia & friends”, già di per sé garanzia di successo, con la diva nel suo congedo da Rosina (sarà davvero così?) e una locandina di fedelissimi a cominciare dal luminoso Almaviva di Edgardo Rocha, ai due buffi di razza Alessandro Corbelli per Bartolo e Nicola Alaimo per Figaro, fino ai comprimari Rebeca Olvera per Berta e José Coca Loza come Fiorello, e l’“amichevole partecipazione” di Ildebrando D’Arcangelo come Basilio reso irriconoscibile dal trucco vampiresco. Vampiri in Rossini? Sì e non solo, perché il regista-tenore Rolando Villazón immagina questo suo Barbiere come l’alleniano La rosa purpurea del Cairo con un viavai di personaggi che passano dallo schermo (i video sono di rocafilm) alla scena (di Harald B. Thor), che si immagina essere gli studios del produttore Domenico La Forza (Manfred Schwaiger, che prende il posto del tradizionale “uffiziale” del libretto). Le gag si succedono a raffica e senza un attimo di tregua, complice anche il custode degli studios La Forza che è Arturo Brachetti, sognatore innamorato della diva, che aggiunge il suo consueto repertorio di illusionismi e trasformismi. Non si va troppo per il sottile quando lo scopo è far divertire, anche a costo di concedersi qualche licenza musicale, come il “Cessa di più resistere” trasformato in duetto Almaviva-Rosina e pure bissato a furor di pubblico. Una sbavatura per un direttore solitamente attento alla prassi storicamente informata come Gianluca Capuano? Per niente! Spiega lui stesso che essere fedele a Rossini vuol anche dire essere fedeli al contratto firmato dal compositore con l’impresario del Teatro Argentina con l’impegno a soddisfare tutte le richieste di impresario e cantanti. E conclude: “La musica è un organismo vivente e adattare i criteri del tardo-romanticismo non aiuta a rendere la verità (se una verità esiste) delle partiture rossiniane”. Detto questo, guida l’orchestra, che è quella “bartoliana” dei Musiciens du Prince, bravissimi, con la vivacità e il brio che ci aspetta nel Rossini comico, e concede licenza di divertire anche al bravissimo e spiritoso fortepianista Andrea Del Bianco.

 

Se questo Barbiere era l’unica deroga al tema sotterraneo del festival deciso dal sovrintendente Markus Hinterhäuser, all’ispirazione dantesca obbediva invece anche il sontuoso concerto di Ferragosto al Großes Festspielhaus dei Wiener Philharmoniker con Riccardo Muti sul podio per la triade Čajkovskij-Liszt-Boito solo all’apparenza incongruente. Apriva il programma la Sinfonia “Patetica” del compositore russo, impeccabile ma emozionante specialmente nel lento spegnersi dei suoni del finale: davanti alla morte si può solo restare in silenzio. Necessario ma soprattutto per la transizione nell’alto dei cieli Von der Wiege bis zum Grabe(Dalla culla alla tomba), tredicesimo e ultimo poema sinfonico di Franz Liszt, articolato in tre brevi movimenti tutti caratterizzati dalla consueta vivida pittoricità un po’ esteriore del compositore. Conclusione operistica con il “Prologo in cielo” dal Mefistofele di Arrigo Boito. Fin troppo facile anticipare il trionfo con Muti che gioca davvero in casa e ha disposizione la straordinaria compattezza sonora di un’orchestra come i Wiener Philharmoniker con il Coro della Staatsoper di Vienna in versione da concerto, il Coro del Festival di Salisburgo con voci bianche e un solista di lusso come Ildar Abdrazakov. Un vero peccato che ci si fermi al solo prologo per questo Boito, che in una esecuzione come questa si riesce ad apprezzare nel suo spessore di compositore.

Lo stesso si può dire anche per il Trittico di Giacomo Puccini, per la prima volta a Salisburgo, e presentato non nella sequenza consueta ma, nell’ordine, Gianni Schicchi, Il tabarro e Suor Angelica. Più che un viaggio dall’Inferno, dove Dante fa alloggiare Schicchi eternamente nelle Malebolge fra i falsari di persona, al Paradiso, dove Angelica è probabile finisca per pietosa intercessione della Vergine Maria, ma rendere giustizia dell’atto unico meno popolare, soprattutto in area tedesca, e ancor di più per far risaltare le doti interpretative della diva moderna Asmik Grigorian, protagonista unica di tutti i tre ruoli femminili. Obiettivo centrato con trionfo finale ma soprattutto per Angelica restituita con impressionante identificazione “fisica”, perché è piuttosto sottotono come Lauretta, anche se onora più che dignitosamente l’appuntamento col notissimo “O mio babbino caro”, e ancor di più come Giorgietta, che risolve con qualche acuto urlato come tradizione impone ma resta abbastanza estranea al personaggio. Più che per la locandina sterminata con molti punti di forza (e citeremo il formidabile Schicchi di Misha Kiria ma anche la ritrovata Enkelejda Shkosa, dopo gli esordi da mezzosoprano rossiniano, qui eccellente caratterista come Zita, Frugola e Suor zelatrice, ma anche tutta la schiera di suorine che include anche le veterane Karita Mattila e Hanna Schwarz) e solo qualche fragilità (specialmente nei due protagonisti maschili del Tabarro, Roman Burdenko e Joshua Guerrero), che già farebbe il trionfo dalle nostre parti, questo Trittico si ricorderà per la straordinaria qualità musicale guidata da Franz Welser-Möstsul podio dei formidabili Wiener Philharmoniker, avarissima di effetti facili e di colpi (bassi) a effetto e invece generosissima di preziosismi strumentali che proiettano Puccini, questo Puccini, compositore mai troppo amato a Salisburgo né troppo presente nei programmi del festival, nel panorama europeo del suo tempo. Certo, è cosa nota come dimostrano decenni di scritti e saggi, ma quando si riesce ad ascoltarlo così, le parole non servono più. Quanto all’allestimento di Christof Loy, confermava la linea minimalista divenuta ormai la sua cifra direttoriale più autentica (il suo Così fan tutte[https://www.giornaledellamusica.it/recensioni/il-centenario-minore-di-salisburgo] visto sullo stesso palcoscenico ne era in qualche modo l’epitome) e qui efficacissima per liberare la forza espressiva dei tre atti unici. Ed è senz’altro una notizia il “sense of humour” sfoderato nello Schicchi e, dunque, non avrebbe sfigurato un “Loy laughs!” sulla locandina. All’insegna del minimalismo anche la scenografia dalle linee essenziali ed eleganti di Etienne Pluss, che crea ambienti dai colori neutri abitati da pochi elementi (un grande letto e qualche mobile in Gianni Schicchi, la chiatta obbligata e un salottino piccoloborghese nel Tabarro, un’aula dimessa con qualche tavolo e sedie per Suor Angelica) sufficienti comunque a riempire efficacemente senza orpelli l’immenso palcoscenico del Großes Festspielhaus.

 

Ancora più radicale era la linea scelta da Barrie Kosky per la sua straordinaria Kát’a Kabanová praticamente tutta giocata sulle notevoli capacità attorali di Corinne Winters, acclamatissima protagonista dell’opera di Janáček. Non c’è niente sull’immenso palcoscenico davanti all’altissima parete di roccia grigia della Felsenreitschule tranne una parete di corpi che danno le spalle al pubblico e soprattutto a lei, la protagonista, come in un fortissimo gesto di inscalfibile rifiuto. Da regista vero, Kosky plasma gli elementi della tragedia di un’anima fragile usando solo i corpi e le luci (bellissime, di Franck Evin) come amplificatore espressivo. Saggiamente le due ore scarse dell’opera non venivano interrotte da intervalli, che avrebbero interrotto imperdonabilmente l’incalzante crescendo di tensione drammatica culminante nel suicidio di Kát’a, dopo il tradimento del marito Tichon con Boris per rompere quel muro di solitudine che la opprime. Eccellente era anche la cura attoriale riservata a tutti gli interpreti, tutti di alto livello, con l’istrionica Evelyn Herlitzius nei panni della tremenda suocera Kabanicha, Jaroslav Březina in quelli del succube Tichon, David Butt Philip interprete sensibile di Boris dall’apprezzabile colore lirico, e Jarmila Balážová una fesca Varvara), Michael Mofidian (Kuligin).

Anche per questo Janáček si ritrovavano in buca i Wiener Philharmoniker in questo caso guidati da Jakub Hrůšanella complessa scrittura musicale del compositore moravo resa con straordinaria espressività e tensione drammatica in una sintonia piuttosto rara con la realizzazione scenica.

 

Le novità dell’edizione 2022 si completavano con Il castello del duca di Barbablù di Béla Bartók, opera pressoché contemporanea al Trittico pucciniano e alla Kát’a Kabanová, audacemente accostata all’ultima opera di Carl Orff, De temporum fine comoedia, tenuta a battesimo proprio al Festival di Salisburgo da Herbert von Karajan nel 1973 e visto molto di rado negli anni a seguire. Per allestire questo insolito dittico la scelta è caduta su Romeo Castellucci, di nuovo a Salisburgo dopo l’elettrizzante Salome[https://www.giornaledellamusica.it/recensioni/tutte-le-donne-di-salisburgo] del 2018 e il controverso Don Giovannidella scorsa estate. Sono davvero pochi gli elementi che legano i lavori di Bartók a Orff ma anche per questo spettacolo allestito sulla scena della Felsenreitschule ancora una volta viene in soccorso il tema del festival: se Bartók è la tenebra, Orff è la luce o almeno la tensione verso di essa. In Bartók, Castellucci costruisce una messa in scena lineare coniugando l’idea di tenebra, molto presente nell’opera (e del resto la protagonista è personificazione della notte), con quella dell’insanabile lotta fra principi opposti: Judith, la donna, e Barbablù, l’uomo. La loro lotta è incessante – e soprattutto lo sono gli assalti sessuali di Judith (una ferina Ausrine Stundyte) all’impenetrabile consorte (un tenebrosissimo Mika Kares) – nello spazio scenico è immerso totalmente nel buio, salvo un breve momento di luce nel sottofinale che svela il meccanismo teatrale, e abitato dagli elementi primigeni di acqua e fuoco e poco altro. Più complessa e cerebrale è la seconda parte della serata: il viaggio verso la luce nell’esoterica opera di Orff è la ricomposizione di una armonia universale rotta dalla ribellione di Satana e dunque ricomposta nel quadro finale del suo lavoro con il perdono concesso da Dio all’angelo ribelle restituito allo splendore della sua luce primigenia. Castellucci rinuncia alla visionarietà metafisica della “comoedia” di Orff per restare sulla terra, costruendo dei tableaux con chiari riferimenti alla pittura rinascimentale che raccontano piuttosto della necessità di una trascendenza. La ricomposizione degli opposti si attua con la ricomparsa in scena, nel finale, di Judith e Barbablù e della restituzione da parte della donna della mela: il peccato originale si cancella, gli opposti trovano la loro armonia.

Forse più che ancora sull’allestimento di Castellucci, a Salisburgo le attese erano riposte sulla direzione musicale di Teodor Currentzis, la cui presenza al festival è stata accompagnata da vivacissime polemiche a causa del suo silenzio nei confronti del regime putiniano. Polemiche o no, Currentzis a Salisburgo è arrivato, piuttosto sottotono rispetto al consueto fiammeggiante e un po’ corrivo protagonismo, ma con il solo coro di musicAeterna al seguito. La sua orchestra lasciava il posto alla Gustav Mahler Jugendorchester, che una volta di più dava prova della sua eccellenza assoluta e versatilità in due lavori agli antipodi dal punto di vista del linguaggio musicale. Senza il proprio gruppo, anche la prova direttoriale di Currentzis sembrava più misurata e priva di quella ricerca dell’effetto a ogni costo, che molto spesso domina le sue esecuzioni. Molto bello il suo Bartók controllatissimo e quasi sussurrato attraverso il suono morbido e suadente degli archi, mentre il suo Orff, pressoché privo di scheletro drammaturgico che rimandi a una qualsivoglia convenzione, viene trasformato in un laboratorio per sperimentare ed esasperare sonorità inedite (esaltante l’evidenza data alle percussioni, straordinarie della Mahler) e sorprendenti impasti timbrici. Un percorso arduo e faticoso come quelli che riportano nel senso più profondo e vero della musica. Alla fine dei tempi.

 

 

 

 

 

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