A Salisburgo con la Bartoli succede un ’68
Al Festival di Pentecoste il Rossini de L’italiana in Algeri, l’Offenbach de La Périchole e il Brahms del Deutsches Requiem da camera
Il primo impeachment della storia negli Stati Uniti. La mezzaluna rossa. Il tabasco. L’association internationale des femmes. Le otto ore lavorative. Il torneo di tennis a Wimbledon. L’Università della California. Il primo semaforo a Londra. L’Idiota di Dostoevskij ma anche Guerra e pace di Tolstoj. L’ingegner Camillo Olivetti (quello delle macchine da scrivere) ma anche Harvey Firestone (quello degli pneumatici). L’Orchestra della Tonhalle a Zurigo ma anche Florence Foster Jenkins. Cos’hanno in comune? Sono tutti nati nel 1868. Ossia centocinquant’anni fa. Ossia l’anno in cui morì Gioachino Rossini, che la direttrice artistica Cecilia Bartoli ha messo al centro della sua personale appendice di Pentecoste del Festival di Salisburgo.
Rossini è una fedele compagno di strada da anni nella lunga carriera artistica della mezzosoprano romana. Isabella però mancava ancora nella galleria di donne volitive del pesarese. La Bartoli ci arriva con una forma vocale sempre intatta, anche se servita male da un direttore che non fa molto per sostenere lei e il resto del cast vocale e malissimo da una coppia di registi che nell’Haus für Mozart allestiscono una farsa dall’umorismo facile e di grana grossissima. Chissà perché ma quando si tratta di Nord-Africa Moshe Leiser e Patrice Caurier tirano fuori il peggio. Accadde già con lo sciagurato Giulio Cesare in Egitto, che inaugurò nel 2012 la fortunata gestione artistica della Bartoli a Salisburgo, e ci ricascano con questa Italiana in Algeri che inanella una serie di lepidezze degne delle commedie di Bombolo e derMonnezza. Le gemme cominciano già durante Sinfonia con le molestie della vogliosa Elvira nel talamo nuziale all’infastidito Mustafà, che in slip e una canotta tesissima sul ventre colossale si chiude in bagno (rumore di sciacquone). Il fricchettone Lindoro, smesso di rollarsi una canna, disturba con la sua cavatina gli abitanti di un condominio popolare, che imprecano in un improbabile arabo fra panni stesi e parabole satellitari. Isabella arriva in groppa a un cammello che, durante la cavatina “Cruda sorte”, si svuota del “peso interiore” e lei si sventola per cacciare l’odore. Sorvolando sull’insistenza sessuale, noteremo solo la bizzarria ruffiana di far cantare “Le femmine d’Italia” al contrabbandiere Haly sulla proiezione della celebre sequenza della Fontana di Trevi dalla Dolce vita (ma la biondissima Ekberg non era svedese?) e la mortificazione del tono alto di “Pensa alla patria” con una conviviale spaghettata servita da Taddeo al coro in tenuta da calciatori della nazionale italiana e Isabella che si struscia su Lindoro. Mortificato sulla scena, questo Rossini non trova riscatto nemmeno in buca, dove Jean-Christophe Spinosi oscilla fra tempi veloci e tempi velocissimi che l’orchestra – che è il suo fiduciario Ensemble Matheus – segue ma che gli interpreti, chi più chi meno, non sempre seguono con inevitabili riflessi sugli insiemi, spesso imprecisi quando non confusi. Un consiglio dello stesso Rossini e, guarda caso, proprio del 1868: “Melodia semplice e varietà nel ritmo” (da una lettera a Filippo Filippi). Magari è utile per la ripresa estiva della produzione.
Quanto agli interpreti, Cecilia Bartoli se la cava senza intoppi e fa leva non poco sulla sua naturale simpatia, ma questa Isabella non ci è davvero sembrata la sua prova vocale migliore. Il Taddeo di Alessandro Corbelli è una lezione vivente di un buffo di alta classe e dimostra soprattutto che per far ridere bisogna lavorare per sottrazione (e chi vuol capire …). Peter Kálmán calca la mano con il suo Mustafà buffonesco e esuberante (del resto è soprattutto su di lui che si accanisce la coppia registica) ma fatica non poco a tenere il passo del direttore. Edgardo Rocha, tenorino di valore, se la cava bene con l’amoroso Lindoro così come ben disegnati sono l’Elvira di Rebeca Olvera, l’Haly di José Coca Loza e la Zulma molto zingaresca di Rosa Bove. Funzionale il Philharmonia Chor Wien che cambia più costumi della primadonna.
Molti applausi ovviamente, ma non quanti ne segna l’applausometro del festival per i bravissimi interpreti de La Périchole di Jacques Offenbach, altro prodotto di quel fertile 1868, come anche i Meistersinger von Nürnberg di Wagner, che del Mozart degli Champs-Elysées disse sprezzante: “Offenbach possiede lo stesso calore del cumulo di letame, nel quale si rotolano i maiali d’Europa”. Ma si sa: la leggerezza non è una virtù wagneriana. Lo è invece, e molto, per la compagine francese capitanata dal direttore Marc Minkowski, che da Salisburgo porterà questa deliziosa opéra bouffe in versione scenica all’Opéra national de Bordeaux (in collaborazione con il Palazzetto Bru-Zane) in ottobre e dunque ben in tempo per il bicentenario offenbachiano dell’anno 2019. Come Rossini per la Bartoli, così Offenbach è una presenza ricorrente nei programmi del direttore francese, che anche in questa commedia sentimentale un po’ zuccherosa inietta il ritmo scatenato e travolgente più caratteristico del più grande operettista del Secondo Impero.
Nonostante il programma annunci una versione in forma di concerto, l’orchestra suona in buca e i cantanti agiscono sulla scena, la stessa dell’Italiana, con movimenti curati da Romain Gilbert, un promettente saggio fatto di grazia e brio che certamente si ritroverà nella sua forma più compiuta nello spettacolo di Bordeaux. Lo sostengono una squadra di interpreti molto affiatati e partecipi. Difficile trovare una coppia di protagonisti come Aude Extrémo (la Périchole) e Benjamin Bernheim (Piquillo), una combinazione felice di vocalità di gran livello, di humour leggero e di aisance scenica che li rende davvero due interpreti ideali. Non è da meno Alexandre Duhamel, spiritoso e sanguigno Vicerè, e i suoi due funzionari Eric Huchet (Panatellas) e Marc Mauillon (Hinoyosa). Ben assortite anche le tre cugine Olivia Doray (Guadalena), Lea Desandre (Berginella) e Mélodie Ruvio (Mastrilla), che tornano nella pattuglia dei cortigiani con Adriana Bignagni Lesca (Brambilla), Rémy Mathieu (Tarapote). Di grande spessore gli spiritosi interventi del dinamico coro dell’Opéra national de Bordeaux istruito da Salvatore Caputo.
Di umore completamente diverso il concerto matinée “spirituale” al Mozarteum, dedicato al Deutsches Requiem di Johannes Brahms, anche quello nato nel 1868 a Brema, ma presentato nella meno frequente versione londinese del 1871 per due pianoforti. Preceduta dal breve Pange lingua et Tantum ergo per coro a cappella di Anton Bruckner, privata dell’accompagnamento orchestrale la grande composizione di Brahms accentua anche di più il carattere intimista di un requiem per coloro che sopravvivono a una perdita. Da elogiare senza riserve l’ottima prova del Coro della Radiotelevisione Bavarese, dei due intensi interpreti vocali, la soprano Genia Kühmeier e il baritono Andrè Schuen, e delle due presenze non solo prestigiose al pianoforte di Pierre-Laurent Aimard e Markus Hinterhäuser, tutti diretti con spirituale partecipazione da Jérémie Rhorer.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.