Roma Jazz Festival, jazz verso il mondo
Corde da Marocco e Iran per gli ultimi appuntamenti dell’edizione 2023
Ancora una proposta legata più alla world music che al jazz vero e proprio, per la chiusura del Roma Jazz Festival 2023. O forse meglio lasciare da parte qualsiasi intento di classificazione, visto che l’edizione di quest’anno ha puntato proprio sull’idea di "transizione", per superare le ultime linee di demarcazione tra generi, nella consapevolezza che siamo sempre più di fronte a un crogiolo dove ciascun artista versa liberamente il materiale sonoro che preferisce.
– Leggi anche: Roma Jazz Festival, inseguendo il pubblico
A richiamare un folto pubblico romano, domenica 26 novembre, alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone era evidentemente lui, Shabaka Hutchings, star di successo di gruppi come Sons of Kemet e Comet is Coming, coinvolto in un progetto (di cui già è stato scritto su queste colonne) nel quale tuttavia non è sembrato muoversi completamente a proprio agio.
Stante anche la sostituzione all’ultimo momento per un piccolo infortunio del marocchino Majid Bekkas col connazionale Simo Lagnawi, altro depositario della tradizione musicale gnawa, il trio che comprendeva anche Hamid Drake alla batteria ha dato l’impressione di non avere una precisa rotta musicale da seguire. Troppo centrato sulle particolari ma monocromatiche sonorità del guembri, lo strumento a corde pizzicate con la tavola armonica ricoperta di pellame suonato da Lagnawi (impegnato anche nel proporre alcuni canti tradizionali), il concerto ha visto Shabaka non di rado con un ruolo secondario.
Poco significativo l’apporto che ha dato con i suoi flauti, mentre col sax è riuscito a riportare un po’ più di varietà sul palco, ben sostenuto dall’apporto ritmico dell’infaticabile Drake.
Decisamente più interessante si è rivelato un altro appuntamento, quello con un artista che ha saputo attingere alle tradizioni del mondo occidentale e di quello orientale creando un proprio e originale stile. Mercoledì 22 novembre, sempre nell’auditorium romano ma stavolta all’interno del Teatro Studio Gianni Borgna, il musicista e compositore iraniano-australiano Hamed Sadeghi col suo Eishan Ensemble ha creato atmosfere particolari che subito hanno coinvolto i presenti. Le tipiche sonorità del tar (anche qui uno strumento a corde pizzicate) sono state le protagoniste di molte composizioni originali dello stesso Sadeghi, ma il concerto è stato tutt’altro che monopolizzato dal leader.
Il musicista originario dell’Iran si è dimostrato infatti sempre capace di dialogare con gli altri componenti del gruppo, in particolare con Adem Yilmaz alle percussioni e Michael Avgenicos al sassofono, stabili collaboratori anche in sede discografica (dove viceversa hanno avuto il ruolo di ospiti la cantante Sonya Holowell e il fisarmonicista Marcello Maio). Malgrado l’intercambiabilità di alcune figure strumentali – stavolta al contrabbasso c’era l’eccellente Max Alduca – l’Eishan Ensamble si è dimostrato in grado di esprimere una sua peculiare cifra stilistica, facendo comunque emergere la personalità e le capacità di ciascuno dei componenti.
Perfetta l’intesa tra il tar e il sax in brani come “Street” o “Wind”, tratti dall’album Afternoon Tea at Six (del 2020), sempre sostenuti dai ritmi che Yilmaz scandiva col suo cajon. Più che appropriato lo spazio lasciato agli assoli che, a turno, hanno visto protagonisti tutti i musicisti. Il tutto al servizio di una musica dove venivano combinati i sapori della tradizione persiana con quelli che, anche nella lontana Australia, rimandano alle nuove correnti del jazz occidentale. Indubbiamente questa incursione nel Middle Eastern Jazz fusion, come è stato definito, ha rappresentato una bella scoperta per il pubblico romano, purtroppo non particolarmente numeroso, ma si sa che le scoperte si addicono a chi si lascia spingere dalla curiosità.
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