Rigoletto e il fantasma di Gilda
Al Teatro La Fenice Damiano Micheletto porta in scena con successo l’opera verdiana con Luca Salsi protagonista
“For each man kills the thing he loves” e così anche il buffone Rigoletto diventa omicida (inconsapevole?) della adorata figlia Gilda, che sublima e esaurisce l’universo della sua personale trinità di culto, famiglia e patria. È quella giovane donna, che non ha mai conosciuto la madre né conosce davvero quell’uomo che le è padre ma pretende di tenerla chiusa in una gabbia per difenderla soprattutto dalle proprie ossessioni e soddisfare la propria smania di possesso negandole pervicacemente la legittimità di sogni e desideri, a turbare con la sua morte l’equilibrio psichico del suo involontario carnefice.
È un Rigoletto insolito e dark, che non riscatta l’ottusa e crudele piaggeria del buffone di corte con la purezza dell’amore paterno come vuole la tradizione. È invece un superstite della rovina causata da un affetto antropofago rivolto all’oggetto del suo amore: è questo il protagonistadella rilettura radicale e coerente del Rigoletto verdiano di Damiano Micheletto, che ha ripreso non già la recente produzione per il Circo Massimo, poco adatta alle dimensioni di un teatro al chiuso, ma quella del 2017 firmata per l’Opera nazionale olandese di Amsterdam, adattandola con significative modifiche alle dimensioni più contenute del palcoscenico del Teatro La Fenice, teatro nel quale l’opera verdiana vide la luce nel 1851 e dal quale mancava dal 2001, anno in cui al Teatro Malibran si era visto un non memorabile allestimento firmato da Stéphane Braunschweig coprodotto con la Monnaie di Bruxelles.
Michieletto sceglie per questo suo Rigoletto la cella di un manicomio, uno spazio chiuso, immaginato da Paolo Fantin con uno spoglio letto da ospedale, una grande finestra chiusa da sbarre, un semplice lavabo e sinistri squarci che lacerano le bianchissime pareti di mattoni. Uno spazio nel quale il buffone di corte è protagonista assoluto di una storia rivissuta come un flashback insopportabilmente crudele, nel quale la tragedia della morte di Gilda – spesso presente in palcoscenico come inquietante fantasma di bambina col volto coperto da una maschera bianca, come il velo nero autentico presagio di morte – si intrecciano alle sue ossessioni in una rappresentazione del melodramma verdiano dal carattere brutalmente espressionista, come le luci dai forti contrasti cromatici di Alessandro Carletti. Un autentico incubo è la festa nella “sala magnifica del Palazzo Ducale” affollata di presenze stranianti in abiti bianchi e con il volto coperto dalla maschera del padrone di casa, autentica ossessione per il buffone. Un incubo, tremendo, è anche lo sgozzamento di Gilda nel finale, mentre il padre scava disperatamente la sua fossa, che ha l’ineluttabile incedere di un rito sacrificale. Le presenze affollano lo spazio attraverso gli squarci dalle pareti e animano quel teatro della crudeltà deformato dalla lente distorta di una psicologia turbata, che trova temporaneo sollievo solo negli stucchevoli quadretti di infantile e domestica innocenza delle proiezioni a tutta parete in stridente contrasto con la Gilda adulta (i suggestivi video sono di Rocafilm). Ma il peso della colpa torna inesorabile come la maledizione lanciata da Monterone, con il quale il buffone condivide il dramma di una figlia violata, sua proiezione ma anche premonizione, piantata come un chiodo nel profondo della sua mente.
A una versione scenica di shakesperiana cupezza corrisponde un’esecuzione musicale di grande spessore tragico. Difficile ascoltare un Verdi così ruvido e cupo e senza speranza come quello offerto dal direttore Daniele Callegari, del tutto coerente con le ragioni della scena. Dominano i colori orchestrali scuri e le sonorità lancinanti in questo Rigoletto, che ha in Luca Salsi, praticamente sempre presente in scena, un interprete di qualità e di tenuta drammatica non comuni, molto abile nel dare un’anima al canto cedendo a tratti a un parlato che diventa espressione di un dolore profondo. Senza dover reggere gran parte del peso dello spettacolo, è certamente più facile il lavoro degli altri interpreti, che comunque offrono tutti prove di rilievo, a cominciare da Claudia Pavone, che non è la solita Gilda bambola del belcanto ma personaggio a tutto tondo con accenti di toccante drammaticità. Più convenzionale il duca di Mantova di Ivan Ayon Rivas, tenore di esuberanti vocalità e presenza scenica. Riuscite anche le prove di Mattia Denti come Sparafucile, Valeria Girardello come Maddalena, e Gianfranco Montresor come Monterone. Funzionali tutti gli altri, da Carlotta Vichi (Giovanna), Armando Gabba(Marullo), Marcello Nardis (Matteo Borsa), Matteo Ferrara (Ceprano), Rosanna Lo Greco (La contessa di Ceprano) fino a Emanuele Pedrini (Un usciere di corte) e Sabrina Mazzamuto (Un paggio della duchessa). Ottimo l’apporto di Orchestra e Coro del Teatro La Fenice.
Successo sincero per tutti e ovazioni per il protagonista. Tutte esaurite le 10 repliche in programma in una sala dalla capienza ancora fortemente ridotta.
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