Quella donna del mare del passato che sa ancora emozionare 

Un trionfo alla Deutsche Oper di Berlino per Oceane, la nuova opera di Detlev Glanert tratta da un racconto incompiuto di Theodor Fontane 

Oceane (Foto Bernd Uhlig)
Oceane (Foto Bernd Uhlig)
Recensione
classica
Berlino, Deutsche Oper
Oceane 
28 Aprile 2019 - 24 Giugno 2019

Al di là dell’indiscutibile successo, dicono molte cose i quasi 12 minuti di applausi e chiamate di un pubblico entusiasta alla Deutsche Oper di Berlino per Oceane, l’opera più recente di Detlev Glanert  e del librettista Hans Ulrich Treichel. Dicono innanzitutto che l’opera come genere magari non è davvero morta con Puccini e Strauss (fra parentesi, che dire di Britten?) e che forse può ancora comunicare qualcosa alla sensibilità contemporanea. Dicono anche che forse ha ragione chi, come Glanert, continua a credere nella possibilità di raccontare delle storie e di amplificarne la portata emotiva attraverso la musica, magari partendo da una storia vecchia di oltre un secolo e soltanto abbozzata dal suo autore, Theodor Fontane, uno dei grandi padri del romanzo di area tedesca che proprio quest’anno festeggia il duecentesimo compleanno. 

Siamo in un vecchio albergo in riva al Baltico, forse alla sua ultima stagione. L’albergo cade ormai a pezzi e Madame Louise, la proprietaria, non sa più come far quadrare i conti. L’estate è alla fine, il cielo annuncia già l’autunno. Compare una donna che nessuno ha mai visto in quella piccola comunità in cui tutti si conoscono: è Oceane von Parceval. È diversa dagli altri e non dice nulla di sé né gli altri sanno nulla. Il mare sembra attirarla più di quanto non la attiri quella piccola e festosa comunità vacanziera e soprattutto il barone Martin von Dircksen, che si mostra da subito attratto da lei. Alla festa di fine estate gli ospiti ballano composti valzer e misurati galop, ma lei si lancia in una danza sfrenata e scomposta che turba tutti e soprattutto scatena l’aspra invettiva del Pastore Balzer. Ma quella donna è diversa. Anche quando il mare restituisce il cadavere di un giovane pescatore, lei mostra indifferenza mentre il turbamento generale è quasi d’obbligo così come l’opportunismo consolatorio del pastore. Martin la incalza: vuole il suo amore. Lei è sfuggente e ha la mente altrove. La prima tempesta autunnale ormai incombe e gli ospiti scompaiono rapidamente verso il ferry. La donna invece resta ed entra lentamente nel mare. 

Scelta risolutamente controcorrente quella di Glanert, soprattutto nel contesto attuale del teatro musicale di area tedesca: un soggetto all’apparenza laterale rispetto alle problematiche dei nostri tempi (anche se il contrasto individuo-collettivo ha portata universale) e centrato su una dimensione fortemente psicologica e lontana dagli intellettualismi delle avanguardie. Conseguente è dunque la scelta di un linguaggio musicale, che rifugge qualsiasi forma di sperimentalismo e si ancora piuttosto a canoni tradizionali, fortemente introspettivi e a tratti “imitativi” benché con una certa libertà nell’uso delle forme classiche (e chiuse) dell’opera e con una straordinaria cura nell’orchestrazione, di mirabolante ricchezza timbrica, da sempre punto di forza della scrittura di Glanert. Molto classica, si direbbe britteniana, è l’articolazione del lavoro in due atti simmetricamente racchiusi fra un preludio e un postludio strumentali con vocalizzi del coro, e la divisione in due scene di ogni atto separate da brevi interludi strumentali di raccordo sostanzialmente “emotivo”. 

Curatissima e levigatissima l’esecuzione musicale curata dal direttore musicale della Deutsche Oper Donald Runnicles. Che il lavoro di preparazione sia stato lungo lo si coglie nella straordinaria precisione della cura strumentale e nell’equilibrio generale delle diverse componenti. Funzionano benissimo, anche se non ci sono sembrate le parti più ispirate della partitura, i complessi innesti di musiche d’ambiente del piccolo ensemble in scena nell’articolata trama strumentale della grande orchestra in buca. Più risolte invece le interazioni con il coro, anche preparatissimo (da Jeremy Bines), efficacemente integrato nell’azione scenica. Molto equilibrata la distribuzione vocale, ispirata a linee di canto molto classiche come classica è la coppia soprano-tenore protagonista, che a Berlino erano l’enigmatica Maria Bengtsson (Oceane) e il focoso Nikolai Schukoff (Martin von Dircksen), controbilanciata dal duo leggero del soprano “soubrette” e del baritono, la frizzante Nicole Haslett (Kristina) e l’elegante Christoph Pohl (Dr. Albert Felgentreu), e completata dall’ottimo trio di caratteristi del reboante Albert Pesendorfer (il Pastore Baltzer), la nostalgica Doris Soffel (Madame Louise) e l’apocalittico Stephen Bronk (il vecchio cameriere Georg) benché il libretto non scavi troppo sotto la convenzionale maniera. 

Fin troppo sul versante classico anche l’elegantissima versione scenica, ma piuttosto anodina sul piano drammatico, firmata da Robert Carsen, anche nell’insolita versione di scenografo con Luis F. Carvalho, che usa un semplice fondale con le immagini (proiettate) di un mare in movimento su cui grava un cielo corrusco, aggiungendo via via parsimoniosi elementi di attrezzeria scenica. L’epoca è data dagli eleganti costumi fin de siècle di Dorothea Katzer intonati agli infiniti toni di grigio della scena, tipici dell’autunno baltico. Scintillante di strass, come la pelle di una creatura acquatica, è solo lei, Oceane, la donna del mare, la diversa. 

Del trionfale successo si è detto. Si replica per un mese e si mormora già di una ripresa nelle prossime stagioni. 

 

 

 

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