Quel sorriso un po’ triste della “Vedova” di Guth 

Grande successo all’Oper Frankfurt per l’operetta di Lehár con Marlis Petersen e Iurii Samoilov protagonisti 

Die lustige Witwe 
Die lustige Witwe 
Recensione
classica
Frankfurt am Main, Opernhaus
Die lustige Witwe 
13 Maggio 2018 - 25 Giugno 2018

Chi l’avrebbe davvero detto che nella Lustige Witwe di Claus Guth, non solo si sorride, ma si ride anche? È un piccolo gioiello di leggerezza e di eleganza questa sua prima vera esperienza con il classico dei classici dell’operetta viennese. È vero che Guth prende distanza sovrapponendo una love story alla fine fra i due interpreti principali del film sull’operetta di Lehár, che prevede intrusioni e interruzioni frequenti di troupe e regista irascibile, ma la cura con cui vengono presentati i numeri musicali, tutti coreografati da Ramses Sigl con un gusto che si rifà al cinema hollywoodiano degli anni trenta come gli eleganti costumi e le linee déco delle scene di Christian Schmidt (ispirate dall’architettura dei viennesi Rosenhügel-Filmstudios), rivela una sincera passione per questo lavoro. Il doppio binario scelto per la narrazione non complica il plot ma anzi lo arricchisce di siparietti inediti e di umori diversi, compresa una sottile vena di malinconia, che non è certo estranea a Lehár. Quando si apre il sipario, lei è sola nel camerino mentre aspetta di girare, con la testa altrove. Non nota nemmeno quelle timide attenzioni del pianista accompagnatore. Ma in scena riprende, fasciata nel suo costume nero della vedova Glawari, fra i complimenti sfacciati dei numerosi pretendenti. Lui è attaccato alla bottiglia e butta la vita fra feste e grisettes. Ma il duello amoroso lo attizza. Si prendono, si lasciano e intorno a loro impazza la follia e la danza di quell’immaginario Pontevedro. E dopo tante schermaglie, lei lo sceglie e lo chiama per nome: “Iurii”. Lui resta nella finzione e le risponde: “Hanna”. La storia è finita e lei, sola, torna nel camerino. The end.

Lei è Marlis Petersen, bravissima a dissimulare quella tensione amorosa nella briosa finzione di Hanna Glawari e far affiorare appena quel disagio quando la musica la aiuta. Lui è Iurii Samoilov, bello e dannato, forzato del divertimento perché non è uno che possa dargliela vinta. Entrambi stanno al (doppio) gioco cantando e danzando benissimo. C’è la coppia di amanti, Camille e Valencienne, che hanno la freschezza e l’eleganza di altri tempi di Elizabeth Reiter e Martin Mitterrutzner, e il marito tradito, il Barone Mirko Zeta, disegnato con stralunata misura da Barnaby Rea. E poi quel mondo di comparse pontevedrine per quel film, che Klaus Hadererprova disperatamente a dirigere quando non assume le fattezze sciancate di Njegus. E il pianista Mariusz Klubczuk, pianista vero in forza al teatro, perfetto nel siparietto fra secondo e terzo atto con l’aria mesta di chi ama senza speranza e con un mazzo di rose per Marlis che cresce come la sua ansia da dichiarazione. E infine ci sono gli otto boys di Hannah e le otto smorfiose grisettes che aggiungono il glamour che conviene al grande spettacolo, al quale nemmeno il Coro dell’Oper Frankfurt, qui impegnato anche in vorticosi giri di walzer, si sottrae. 

Alla musica pensa Joanna Mallwitz e lo fa levigando il bellissimo suono della Frankfurter Opern- und Museumsorchester e dandogli quella leggera patina di nostalgia che impreziosisce le melodie di Lehár. 

Teatro esaurito alla prima. Grande successo con ovazioni e chiamate e, immancabile, passerella accompagnata dal galopp delle grisettes del Maxim’s

 

 

 

 

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