Puuluup, surrealismo alla estone
Passaggio italiano per il duo Puuluup, fra Eurovision e folk immaginario
«Ci ispiriamo alle notti di Vormsi, ai tram di novembre, ai maniaci in amore, ai criminali di Odessa e ad Antonio Vivaldi»: così i Puuluup, duo estone formato da Ramo Teder (talharpa, voce, looper, effetti) e Marko Veisson (talharpa, voce, effetti) nel 2014 e che ha varcato i confini del piccolo paese baltico per portare in giro per il mondo il verbo di una musica ironica e dissacrante, che sembra uscita pari pari da un film di Kaurismaki.
Freschi di partecipazione all’Eurovision, i nostri sono capitati dalle parti dello splendido Teatro Sociale di Gualtieri, nella bassa zavattiniana reggiana, per l’unica data italiana.
Li avevamo già intercettati l’anno scorso all’Ariano Folk Festival ed eravamo curiosi di ritrovarli: attingono per lo più all’ultimo disco, Viimane Suusataja del 2021, ma presentano anche un inedito; «facciamo musica folk e dunque le nostre canzoni parlano di folk, ma anche di sci di fondo» (il loro ultimo lavoro in studio in effetti ha come titolo “L’ultimo sciatore di fondo”).
Sempre felicemente in bilico tra surrealtà, dada e lirismo, Puuluup propongono due tipi di pezzi, quelli che si avvalgono del looper e quelli nudi, che richiamano in modo più diretto la tradizione folk estone; a cui sono intimamente collegati già dall’uso della talharpa, un’antica lira che viene usata sin dall’inizio del Medioevo e che ancora oggi viene suonata nelle isole dell’Estonia occidentale.
Cantano in russo, in estone, in finlandese e in una lingua inventata e giocano con ricordi di canzoni italiane e non solo (citano in un testo “Papaveri e papere”, in un altro pezzo il riff iniziale è preso di peso addirittura da “Smoke on the water”), sostenendo che le canzoni tradizionali, quando parlano d’amore, si dividono in tristi e molto tristi.
In realtà la loro musica suona costantemente abitata da una leggerezza calviniana che la rende accogliente e fresca, pur patendo una certa ripetitività nella proposta. Le talharpe vengono usate anche come percussioni e si possono cogliere anche echi di Africa in questi haiku che stanno da qualche parte tra nenie pop, filastrocche folk e lirismo ancestrale.
Lo humour è ciò che probabilmente fa la differenza nella proposta dei Puuluup: artisti eclettici (Teder è anche pittore, qualcuno tra i più attenti potrebbe ricordare il suo progetto solista Pastacas, nettamente più sbilanciato sull’elettronica: consigliamo Pohlad del 2016) e dai vasti orizzonti (Veisson è docente di sociologia e antropologia culturale), creano un suono accogliente e capace di creare un mondo coerente, che ci porta dritti dritti nell’inverno estone, dove «apri la porta di casa e non c’è nessuno nel raggio di chilometri: per questo usiamo il looper, per non sentirci soli».
Cantori sottovoce di una poetica dissacrante (qualcuno, con sprezzo del pericolo, li ha definiti “neo-zombi post folk"), dichiarano di ispirarsi ai temi della tv polacca e al punk estone (a chi scrive non posso non venire in mente i grandi Ne Zhdali di Leonid Soybelman).
Ottimi intrattenitori, riescono a giocare con intelligenza con i cliché sulla proverbiale ritrosia dei popoli nordici e coinvolgono il pubblico anche in danze tradizionali. Il loro blend di folklore e surrealismo si nutre di pronunce reggae, blues del Sahel ("Liigutage Vastu"), chatushkas russe, hip-hop: il risultato sa essere delizioso ("Kasekesed"), innodico ("TV On The Street").
Pur avendo un mood molto diverso e suonando profondamente diversi sia nell’approccio che negli esiti, in qualche modo hanno un punto di contatto con i nostri amati sloveni Širom, per la volontà e l’attitudine nell’abbeverarsi alle fonti antiche del folk, cercando di reinventare il sacro mischiandolo al profano, osservando melodie e ritmi ancestrali secondo geometrie sghembe e un altro punto di vista.
La stagione dei concerti all’interno di Terreni Fertili 2024 del Teatro Sociale prosegue fino a fine luglio con, tra gli altri, il bandoneonista e flautista Carlo Maver a presentare il suo ultimo lavoro, Solenne, e il trio di Afridi Barthi, direttamente dal Rajasthan. Per ogni dettaglio fatevi un giro qui.
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