Poker rossiniano nella Foresta Nera
A Bad Wildbad l’annuale festival dedicato al Pesarese
A dire il vero quello di “Eduardo e Cristina” era un ritorno a Bad Wildbad, che l’aveva già presentato in forma di concerto nel 1997 nella Kursaal con la direzione di Francesco Corti in una edizione critica messa a punto da Anders Wiklund per la Deutsche Rossini Gesellschaft. La stessa versione serviva per la versione concertante 2017 diretta nella Trinkhalle dalla prestigiosa bacchetta di Gianluigi Gelmetti, che riscuoteva un grande successo personale coronato dalla consegna del primo (e improvvisato) premio rossiniano del festival. Tecnicamente un “centone”, ossia opera fatta di ritagli e autoimprestiti (che, secondo Stendhal, procurarono screzio fra il compositore e l’impresario veneziano del Teatro di San Benedetto furibondo per il riciclo) organizzati su un libretto non originale per un’opera di Stefano Pavesi. Ambientazione svedese per la storia di un matrimonio segreto fra Cristina, figlia del re Carlo, e il generale svedese Eduardo con tanto di figlio, Gustavo, tenuto nascosto. Carlo promette la figlia al principe scozzese Giacomo, lei rifiuta ma non parla, nemmeno quando si scopre il figlio ed Eduardo ammette di essere il padre. Nonostante la disponibilità di Giacomo a prendere madre e figlio, Carlo non la prende bene e manda in galera figlia e generale. Un provvidenziali attacco dei nemici russi sventato da Eduardo liberato dalle sue fedeli truppe riscatta il generale, che può finalmente rivelare il suo legame con Cristina e celebrare il lieto fine con un convenzionalissimo rondó. Valutare il valore di un’opera sulla base del materiale originale in Rossini funziona fino a un certo punto poiché il riciclo è quasi un manifesto estetico. Piuttosto è interessante constatare come un lavoro interamente costruito a partire da tre opere in particolare (“Ricciardo e Zoraide”, “Adelaide di Borgogna” e “Ermione”, la migliore in assoluto delle tre) funziona bene sul piano drammatico, nonostante qualche prolissità nel primo atto. Funziona anche grazie alla direzione appassionata e competente di Gelmetti e agli interpreti riuniti per l’occasione. Se l’Edoardo di Laura Polverelli non aveva forse il nerbo dell’eroe ma era comunque risolto con eleganza e intelligenza, la Cristina di Silvia Dalla Benetta convinceva di più per slancio e passione sostenuti da robusti mezzi vocali. Riuscita era anche la prova di Kenneth Tarver nei non agevoli panni tenorili di Carlo, così come quelle del baritono Baurzhan Anderzhanov come Giacomo e del tenore Xian Xu come Atlei.
Un momento delle prove di “Eduardo e Cristina”
Tornando all’edizione 2017, accanto all’“Eduardo e Cristina”, quest’anno Rossini in Wildbad proponeva altri tre titoli rossiniani, di cui due in versione scenica, e la ripresa di una produzione di un paio di edizioni fa, “Le cinesi” di Manuel García con la regia di Jochen Schönleber, portato anche all’Opera di Firenze nello scorso ottobre. Jochen Schönleber firmava anche la regia delle due nuove produzioni 2017: “L’occasione fa il ladro” al Teatro reale delle Terme e “Maometto II” alla Trinkhalle. Decisamente spinta sul piano della farsa, “L’occasione” vedeva il debutto di Lorenzo Regazzo, presenza abituale al festival e interprete rossiniano dalla lunga esperienza, nel ruolo di Don Parmenione, truffatore di piccolo cabotaggio in combutta con il servitore e complice Martino. Le gag a raffica erano costruite soprattutto sulla straripante esuberanza del più che buffo Regazzo che comunque si faceva apprezzare per un bel gioco di squadra con gli altri giovani interpreti: Vera Talerko, Berenice di carattere e verve, Kenneth Tarver, un Alberto apprezzabile per gli accenti nobili, Roberto Maietta, un Martino spiritoso di lodevole misura ed eleganza di fraseggio, Giada Frasconi, spiritosa Ernestina, e Patrick Kabongo Mubenga, un parodistico Don Eusebio. Antonino Fogliani imprimeva un passo spedito e brillante all’accompagnamento musicale, di irresistibile effetto comico.
Con passo altrettanto spedito Fogliani affrontava anche il “Maometto II” con esito diverso, facendo salire la temperatura drammatica nello strepitoso incalzare di eventi e colpi di scena del primo atto e aprendo a un passo più cantabile nelle grandi scene del secondo atto. Dinamiche al servizio della geniale drammaturgia musicale rossiniana, specialmente brillante in questa opera che davvero dispiace non vedere più spesso sulle scene, che comunque non andavano a scapito della ricchezza della trama strumentale, particolarmente curata e messa in evidenza dal direttore. Grande impegno dell’orchestra, anche per questa edizione quella dei Virtuosi Brunensis, e impegno anche maggiore per i quattro protagonisti ai quali la scrittura rossiniana non risparmia insidie e difficoltà di ogni tipo. L’eroe musulmano era Mirco Palazzi: ottimo esordio nella cavatina “Duce di tanti eroi” con agilità pulite e bel colore vocale, che tuttavia tende a stimbrarsi nella regione acuta affrontata con qualche affanno in più di un passaggio. Anna Erisso era la giovane Elisa Balbo: presenza scenica interessante, qualche fragilità nell’emissione vocale, affronta un ruolo non facile e la lunga scena tragica del finale napoletano con la stoffa della vocalista matura. Merto Sungu era Paolo Erisso: tenore dalla bella coloratura, un po’ forzato nel sovracuto, ma portava a casa una prova convincente anche sul piano interpretativo. Un po’ sottotono il Calbo di Victoria Yarovaya che comunque si riprendeva imperiosamente la scena con “Non temer d’un basso affetto” concluso da una pioggia di vocalizzi che strappavano applausi convinti. Completava degnamente il cast il giovane Patrick Kabongo Mubenga nel doppio ruolo di Condulmiero e Selimo. Particolarmente efficace la prova del coro della Camerata Bach di Poznam, impegnato anche nelle altre produzioni del festival. Poco più che funzionale l’allestimento firmato ancora da Jochen Schönleber per la scena angusta e poco attrezzata della Trinkhalle: una semplice passerella disposta obliquamente, una parete girevole, qualche elemento di mobilio. Il resto sono azioni ridotte all’essenziale con qualche impaccio a muovere il coro. Ma si sa: a Bad Wildbad non si viene certo per la qualità degli allestimenti, che soprattutto per la fragilità delle strutture disponibili continuano a essere il punto debole della programmazione.
“L’Aureliano in Palmira” completava il poker rossiniano di Bad Wildbad, creando un’intrigante antinomia con l’ “Eduardo e Cristina”: se quest’ultima è opera fatta di trapianti, la prima è un vero e proprio donatore per la gloria di due grandi capolavori rossiniani come “Elisabetta” e soprattutto “Il Barbiere di Siviglia”. Deluso da un’accoglienza tiepida a Milano nel 1813, Rossini vide giusto nel voler riutilizzare un materiale musicale che considerava di valore. E riascoltando “a posteriori” quello stesso materiale nella sua collocazione d’origine non si può non restare sorpresi dalla maggiore coerenza del discorso musicale: ad esempio, i temi della sinfonia tornano infatti in vari momenti dell’opera, quasi a certificarne l’autenticità e l’originalità delle soluzioni musicali (vedasi la riuscita scena di Arsace con coro di pastori “ L'Asia in faville è volta … Perché mai le luci aprimmo” del secondo atto). Interessante anche il soggetto che nella clemente figura del protagonista Aureliano ricorda il Tito mozartiano, per tacere di spunti di attualità che l’ambientazione a Palmira, tormentata allora come oggi, inevitabilmente evoca. Eppure, anche su quest’opera persiste un oblio secolare. Dopo Pesaro, anche Bad Wildbad ci prova con una versione in concerto che aveva il suo punto di forza nella distribuzione vocale, cui, anche per queste prove giovanili, Rossini non risparmia nulla. Già nella cavatina “Cara patria, il mondo trema” il tenore Juan Francisco Gatell sfoderava la sua interpretazione muscolare del belcanto: tono imperioso, coloratura di forza, qualche incrinatura solo nella tessitura alta con più di una opacità negli acuti. Nel complesso una prova più che riuscita. Dal canto suo, Silvia Dalla Benetta disegnava una Zenobia altrettanto imperiosa e vocalmente generosa, con solo qualche asprezza negli acuti. Poco marziale invece l’Arsace di Marina Viotti, che puntava piuttosto sulla morbidezza del canto e su una certa liricità espressa soprattutto in duo con la regina Zenobia. Completavano il cast Xian Xu come Oraspe, Zhiyuan Chen come Licinio e Baurzhan Anderzhanov come Gran Sacerdote d’Iside, che lasciava il segno nella sua unica aria “Stava, dirà la terra”. Il direttore José Miguel Perez-Sierra aggiungeva una direzione piuttosto attenta alla cantabilità alla guida dei Virtuosi Brunensis.
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