Percussioni dal mondo a Losanna
Va in archivio la prima edizione del Percussions Festival International di Losanna
Percuoto dunque esisto. Ne hanno preso atto gli organizzatori del primo Percussions Festival International di Losanna, una tre giorni sotto il segno del ritorno alle origini della musica, articolata in quattordici concerti e intesa a colmare un vuoto tematico nell’affollatissimo panorama festivaliero svizzero.
A scattare alla partenza, nel pomeriggio di venerdì 17 nell’accogliente auditorium dell’EJMA (École de Jazz e de Musique Actuelle) è stato l’ultraottantenne batterista Daniel Humair, arguto nello spirito e ancora svelto di mano: «Avrei potuto suonare in solo, ma credo che dopo un’ora ne avreste avuto fin sopra i capelli, e pure io». Gli sono venuti così in soccorso il contrabbassista Heiri Känzig e Samuel Blaser, trombonista di grandissima levatura. Il terzetto ha ripescato alcuni titoli da 1291, disco in cui lucidavano il jazz delle origini, e vagato tra lo standard “High Society” e “Les oignons” di Sidney Bechet, oltre a proporre “Jim Dine”, sinuoso tema a firma del leader, e un’ardita ripresa dell’inno svizzero. Il brillante lavoro sui piatti di Humair è risultato ancora una volta da manuale e chi ha partecipato alla masterclass tenutasi precedentemente il live si è portato a casa più di uno spunto di riflessione.
Il trasferimento in serata ai Docks ha offerto in apertura l’atletica prestazione dei Maîtres Tambours du Burundi. Il loro modo di esprimersi è condito di movimenti di danza esplosivi, oltre che di canti. Al solito, la decontestualizzazione di “spettacoli” simili comporta il rischio di deprezzarne l’alto valore rituale e culturale, riducendo il tutto – nella decodificazione di buona parte del pubblico – a un’oretta di intrattenimento. I tamburi del Burundi sono oggetti sacri, non per nulla entrati nel patrimonio Unesco, e sarebbe forse opportuno che le loro apparizioni in Occidente fossero accompagnate da un momento esplicativo approfondito e consono all’importanza di quanto si andrà a vedere e ascoltare. Resta il fatto che il grande tamburo reale – posto al centro della scena e circondato dagli altri a semicerchio –, sul quale si alternano democraticamente una decina di percussionisti, sa incutere il giusto timore e rispetto.
A paragone, assai effimera è apparsa la performance dei giovani e scatenati israeliani Mayumana, divisi tra percussioni non ortodosse (bidoni della spazzatura, tavolini, un contenitore colmo d’acqua in cui immergere un barattolo...) e una sequenza di azioni sceniche e di comiche interlocuzioni con i presenti da catalogare nell’avanspettacolo.
Il sabato 18 l’appuntamento d’avvio era fissato all’Opéra, per la performance di Les Percussions de Strasbourg. Un’insegna leggendaria giunta ai quarant’anni di vita, per nulla intaccata nella qualità dai fisiologici mutamenti di organico intercorsi. Se il loro pane rimane l’esecuzione di opere chiave del Novecento, nondimeno la contemporaneità continua a intrigarli. Nella serata losannese hanno presentato Timelessness di Thierry De Mey, opera del 2019, confluenza e integrazione di otto partiture ideate in epoche differenti. Lo scopo del gioco è restituire visibilità fisica agli esecutori, ai quali sono richieste azioni prossime al teatro-danza, talvolta in assenza di strumenti. Movimento e musica si intersecano così lungo un labile confine, in una serie di quadri dal potente fascino, anche perché i suoni, apparentabili a uno sghembo, asimmetrico e corrotto minimalismo di stampo reichiano, appaiono sì concentrati ma non inutilmente seriosi.
Deciso cambio di atmosfera in continuazione di serata con i Japan Marvelous Drummers, per i quali si potrebbe in parte riportare quando detto in precedenza per i tamburi del Burundi. Salvo che la troupe del Sol Levante, pur utilizzando anch’essa strumenti tradizionali, pare assai più abituata a interloquire con il pubblico occidentale e a instaurare una comunicazione immediata. Li si potrebbe definire una versione ammorbidita degli austeri e antesignani Ondekoza, senza nulla togliere alla loro indubbia bravura.
La giornata no del Festival è stata domenica 19, in particolare nella programmazione del mezzodì, e non per colpa di scelte musicali errate. La location infatti si spostava sulla riva del lago Lemano, purtroppo sotto un tendone da circo dalle temperature impossibili, privo di sedie e con un duro acciottolato come unica alternativa al restare in piedi. Un vero peccato, specie per gli eccellenti ensemble coinvolti – in particolare il trio del virtuoso di tabla Yama Sarshar (allievo di Alla Rakha e Zakir Hussain) e della Tama Band de Dakar di Assane Thiam, il percussionista di Youssou N’Dour –, esibitisi di fronte a una quarantina scarsa di persone che avrebbero meritato una medaglia al valore. Un errore di luogo e di orario ammesso con onestà dal giovane presidente del comitato organizzatore, Bart- Jérôme Favre: «Non ho vent’anni di esperienza in materia, in futuro staremo più attenti alla scelta delle sedi».
Per la chiusura del festival si tornava all’Opéra in orario preserale, ad assistere a un Gala officiato sotto l’ala della Radio televisione svizzera. Nel ricco menù dai tempi serrati, comprensibilmente concepito per un pubblico generalista incline al varietà da piccolo schermo, si sono distinti Enrico Lenzin & Andi Pupato, percussionisti sperimentatori dalle molte fantasie che avrebbero meritato un live tutto per loro. Infine, segnaliamo di esserci persi per concomitanza di orari un paio di incroci con l’elettronica (Pierre Audétat, M-A-L-O), il set di Manu Katché e l’eco-ambient di Manu Delago, andato in scena fuori porta, a Montricher.
Al Percussions Festival auguriamo lunga e prosperosa vita, qualche aggiustamento strutturale e il coraggio di osare di più nelle scelte artistiche delle prossime edizioni.
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