Palestine, guru al cognac
Al festival bolognese AngelicA Charlemagne Palestine chiude una sezione dedicata a maestri del minimalismo americano
Recensione
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Al diciottesimo festival AngelicA, Charlemagne Palestine è arrivato dopo Phill Niblock e LaMonte Young, in una minisezione di "guru minimalisti" che il compositore americano ha salutato tra gli applausi di fine esibizione con un energico urlo ridente: "Fuck minimalism!". A inizio concerto gira in mezzo alla gente: apre la sua valigia con orsacchiotti e scimmiette di peluche, sparge foulard indiani hippie, e si tiene in testa il suo panama, lasciando balenare occhietti non proprio buonisti, con un ghigno preoccupante. Infatti, quando sale sul palco e comincia a fare con i suoi ditoni un po' di glass harmonica con bicchierone panciuto di cristallo pieno di Remy Martin (che sorseggia molto, durante l'esibizione) e uno pieno d'acqua (che rimane abbastanza ai suoi livelli a fine concerto) o miagola pseudo canti un po' sciamanici e un po' rabbinici, o picchia sul pianoforte come un invasato della steppa, con i tre tedeschi Perlonex tira su poco per volta una muraglia noise implacabile, che pare più massimalismo elettroacustico/ambient che dolce ipnotico minimalismo. Nato Chaim Moshe Tzadik Palestine nel '45 (o '47?) da una famiglia di ebrei ucraini emigrati a Brooklyn prima della Rivoluzione Bolscevica, quest'uomo sembra ancora oggi venire dal pianeta Seventies. E maneggia musica non maneggiabile.
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