A Palermo, apertura col Parsifal di Nietzsche
Teatro Massimo di Palermo: Omer Meir Wellber dirige Wagner
Nella stimolante lettura registica di Graham Vick che ha aperto la stagione operistica 2020 del Teatro Massimo di Palermo, il Parsifal wagneriano è la tragedia sempre rinnovata della sopraffazione umana e del potere esercitato attraverso simboli di semplificazione identitaria: Amfortas è un re in crisi poiché la perdita della lancia non lo mette più in condizione di officiare i riti per la sua élite di conquistatori e di padroni del mondo (l’esercito dei cavalieri del Graal è in uniforme di marines, nella cerimonia finale del primo atto inebriati tra narcosi allucinogena e masochismo da un’autoincisione delle vene); benché sia vestito esattamente come il Cristo sofferente, gli riesce sempre più difficile e doloroso compiere la sua funzione, alla fine non ci crede più e preferirebbe autodistruggersi, piuttosto che fare da sacerdote delle violenze che sono scorse efferate in silhouette durante gli intermezzi sinfonici. Gurnemanz ne è un luogotenente le cui parole suonano impietosa stigmatizzazione della sua inabilità, più che pietosa comprensione del suo stato. Klingsor non è che il suo rivale: si è impossessato della lancia, e confida d’impadronirsi del Graal; le sue fanciulle e Kundry sono rappresentate – con gli occhi dei padroni del mondo – quali ‘l’altro’ religiosamente irriducibile o quali mere dispensatrici di carnali piaceri. Parsifal sembra l’uomo comune, ignaro-innocente finché è manipolato dalle élite in lotta, delle quali non comprende i riti; solo alla fine del problematico percorso di consapevolezza, si spoglia delle armi e mostra ad Amfortas l’inesistenza del Graal, ovvero l’inutilità dannosa del suo concetto. Le soluzioni stilistiche della regia, nella dimostrazione dell’artificio teatrale e nell’estrema parsimonia dei segni (consuete per Vick), rendono quest’ultimi assai incisivi, enfatizzati come sono anche dall’estrema sporgenza in proscenio dello spazio praticabile dell’azione; essi inoltre, a parte qualche transitoria insistenza antifrastica, hanno il merito ulteriore di avvincere con suspense crescente la fruizione, nella scelta tra chiavi potenziali dell’incarnazione teatrale dei significati: la totale e pessimistica inanità del racconto di un superamento ‘oltre-umano’ dei principi della morale dominante, la valenza di visione utopica (che produce una distopia assai reale, in cui lo stesso eroe eponimo resta fino all’ultimo sull’orlo della barbarie), e quella prospettica della repentina risoluzione finale, nella quale i cavalieri ormai degenerati in banda tribale cadono in letargo e gli esseri umani convivono comunicando.
L’Orchestra e il Coro del Teatro Massimo han già fatto, negli anni scorsi, un ampio rodaggio wagneriano; è servito bene anche a centrare in quest’occasione – sotto l’ottima guida di Omar Meir Wellber – un’idea di suono basata sulla chiarezza e sulla lucentezza, anziché sulla turgidità: misture dunque mai sforzate o appesantite, fraseggio netto, tutte qualità che hanno valorizzato ancor meglio le già ragguardevoli doti del cast: tutti bravissimi, dai ruoli principali a quelli transitori, ma la plasticità di articolazione, la pienezza e la duttilità di emissione dei vari Julian Hubbard, Catherine Hunold, Tómas Tómasson, John Relyea, Thomas Gazheli, sono risaltate veramente a tutto tondo, grazie alla combinazione di interpretazione sinfonica e di collocazione spazio-registica. Applausi lunghissimi ed entusiasti per tutti, staff di regia compreso.
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