Otomo, fenomenologia delle sei corde
A Padova il chitarrista giapponese in duo con il batterista Paal Nilssen-Love
Recensione
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Di Otomo ce ne sono tanti, milioni di milioni. L'appassionato cultore del caos. L'alchimista elettronico. Il campione di vendite (sì, sì, avete letto bene: grazie alla colonna sonora della popolarissima serie tv giapponese [i]Amachan[/i]). Il dotto compositore. Lo sfuggente rumorista. Il vorace masticatore di linguaggi. Ma l'Otomo chitarrista, per tasso di genialità e forza d'urto, da sempre sta un passo avanti rispetto alle altre, infinite mutazioni. Questione di scienza, di suono, di vastità degli orizzonti espressivi. Praticamente infiniti nonostante il numero limitato di corde. E nonostante un approccio allo strumento decisamente arcaico, per certi versi primitivo. Un'idea di chitarra, e di improvvisazione, distante diecimila leghe dall'eccesso di effettistica e dai deliri di pedali, pedalini e loop station che vanno sempre più per la maggiore. Ferro, legno, riverberi, armonici, la fugace apparizione di uno slide, qualche trucchetto base e poco altro: essenzialità e ferocia. Che Otomo riesce a sublimare in una dimensione poetica tanto rigorosa, asettica, precisa, quanto emozionante, carnale, vera e vivida. Sia nelle riletture della manciata di brani ai quali è legato alla maniera di un Monk o di un João Gilberto (“Song for Che”, “Eureka”, “Lonely Woman”), che nelle sanguinarie rappresentazioni dell'ignoto. Come quella messa in scena al Torresino di Padova, su invito del benemerito Centro d'Arte, in compagnia del batterista norvegese Paal Nilssen-Love. Un'ora abbondante di sferragliamenti e rasoiate, di progressioni abrasive e decostruzioni violente. La batteria tutt'intorno (un accidente più che una necessità), la chitarra perfettamente al centro. In apertura e chiusura di set i fantasmi di Ayler e Ornette, a (con)chiudere il cerchio di un'esibizione memorabile.
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