Orfeo radioattivo
Successo all’Opera di Colonia per “INES”, la nuova opera di Ondřej Adámek con libretto di Katharina Schmitt, che proietta il mito di Orfeo in un mondo ferito da una catastrofe nucleare
Diciamolo subito: il titolo della nuova composizione di teatro musicale di Ondřej Adámek, il primo per grande organico, non è il nome di un personaggio ma un acronimo. INES sta infatti per “International Nuclear and Radiological Event Scale” e indica la scala utilizzata per determinare la gravità degli incidenti negli impianti nucleari espressa fra 0, per gli incidenti senza conseguenze significative, e 7, utilizzato solo per Černobyl’ e Fukushima. Per ora.
Riflesso di inquietudini molto contemporanee, INES racconta in effetti una storia vecchia se non come il mondo almeno come l’opera, ossia quella del dolore di Orfeo per la perdita dell’amata Euridice, che, probabilmente per darne un valore più universale o magari, chissà, per alludere a un reale sempre più spersonalizzante, vengono indicati in locandina solo con l’iniziale O ed E. Il libretto di Katharina Schmitt, il secondo per un lavoro di Adámek dopo Everything goes to plan del 2018, dichiara che “l’unità di luogo e di tempo si è dissolta” in questo racconto aggiornato del mito di Orfeo. La scansione temporale è data, anche visivamente, dall’intensità della scala INES che è a 5 nel Prologo, che mostra un paesaggio già contaminato e con tecnici in tuta protettiva in azione nella scena dell’incidente in anticipazione di una catastrofe a venire, e il pianto di O sulla sua perduta E, di cui non ricorda nemmeno più il volto e, come lei, vorrebbe diventare un’ombra. Segue il livello 0, che precede quegli eventi, quando E è ancora viva e lavora ad un’audioguida nel museo di storia naturale dove lavora e dove la coglierà il non meglio specificato grave incidente nucleare che fa schizzare INES al livello 6. E viene investita dalle radiazioni, la sua voce inizia a dissolversi mentre il suo corpo si moltiplica in diverse presenze. E è già incosciente quando O la ritrova su un letto di ospedale, in cui un medico, impietosamente, toglie ogni illusione a O: la morte di E è inevitabile. O perderà per sempre la sua compagna, senza nemmeno la possibilità di un riscatto dal mondo dei morti, e, anche a distanza di anni, cercherà ancora la sua presenza nella voce affidata all’audioguida del museo.
Ancora una volta Adámek racconta una storia di spazio e di tempo con al centro la parola moltiplicata e rifratta nella spazialità dell’elettronica live ma anche, e soprattutto, del complesso tessuto polifonico che coinvolge i solisti, i cori spezzati, in un aggiornamento sapiente e originale della lezione degli antichi maestri, e la stessa grande orchestra, che moltiplica le suggestioni della parola ridotta a puro suono. Alle prese, per la prima volta, con un organico di grandi dimensioni, Adámek riesce abilmente a creare un dispositivo musicale quasi ipnotico e non privo di fascino e tuttavia, l’insistito gioco con i suoni delle parole, ripetute all’infinito fino a svuotarle del loro senso per ridurle a puri oggetti sonori, la cifra forse più caratteristica del compositore ceco, servono a fatica un dispositivo narrativo, spesso oscuro o fin troppo ellittico in certi passaggi, più che in altri suoi lavori di dimensioni più ridotte.
Fortunatamente viene in soccorso l’allestimento scenico curato dalla stessa Katharina Schmitt come regista con le scene e i costumi di Patricia Talacko nel grande spazio della Saal 3 della Staatenhaus occupato interamente da sacchi di plastica bianchi, come quelli usati per contenere oggetti contaminati da radiazioni, nella parte destinata alla performance scenica e qualche essenziale proiezione video di Rebecca Riedel (compresi i valori della scala INES) sui grandi schermi delle pareti di fondo. Pochi ma essenziali “ambienti mobili” (le teche del museo, il letto ospedaliero dell’agonia di E) servono uno spettacolo “orizzontale”, che ha il pregio della chiarezza e che dimostra sapienza nella gestione dell’enorme spazio, occupato in parte dalla grande orchestra, attraversato dalle processioni del coro, e con il pubblico avvolto nei suoni efficacemente diffusi (e opportunamente amplificati).
Quest’opera genuinamente corale vede tutti i numerosi interpreti coinvolti con grande impegno a cominciare dai protagonisti O di Hagen Matzeit e E di Kathrin Zukowski sollecitati a esercizi linguistici di una certa complessità. Notevoli anche le prove dei doppi (tripli?) di E ossia Olga Siemieńczuk, Tara Khozein e Alina König Rannenberg, protagoniste anche di un surreale trio di sapore jazz dedicato alle ragazze di Hiroshima con i volti sfigurati dalle radiazioni, di Dalia Schaechter, che è il medico di gelida spietatezza (come spietatamente sincera può essere la scienza) così come il Coro dell’Oper Köln preparato e diretto in uno spazio complesso da Rustan Samedov. Cancellata l’annunciata presenza di François-Xavier Roth per i noti fatti di cronaca, sul podio si ritrova lo stesso Ondřej Adámek che guida con estrema perentorietà e chiarezza di gesto e di pensiero la complessa macchina musicale e la non facile né scontata scrittura orchestrale riservata alle doti brillanti della Gürzenich-Orchester.
Solo qualche posto vuoto alla prima, salutata con calore dal folto pubblico presente.
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