Non chiedete a Benni che ore sono
Un reading dello scrittore sulle infinite facce del tempo, con Umberto Petrin al piano
Recensione
classica
Il "tempo" - protagonista del Festival delle Scienze - è parte integrante della nostra realtà e della nostra quotidianità ma resta qualcosa di indefinibile e inafferrabile, che filosofi e scienziati tentano di definire e afferrare da millenni. Il fascino della musica è anche nel fatto che tra tutte le arti - e forse tra tutte le attività umane - è quella che è più immersa nel tempo e dà anche l'impressione di poterlo addomesticare o giocarci con esiti sorprendenti. Se ne ha un esempio nel foyer con il Poème Symphonique di Gyorgy Ligeti, in cui cento metronomi scandiscono il tempo, con il risultato che il tempo si sottrae alla loro precisione meccanica, si nasconde da qualche altra parte e quel che resta è un rumore di fondo, che alla fine si annulla, e tutto ritorna al silenzio, con il progressivo scaricarsi delle molle delle diaboliche macchinette. Si potrà anche sperimentare tra sabato e domenica cosa succede al tempo quando si ascoltano per ventiquattro ore le stesse terantcinque battute di Vexations di Erik Satie.
Nel suo reading "Che ore sono?" Stefano Benni ha dimostrato quali interminati spazi, quale profondissima inquietudine e quanti tragicomici equivoci si nascondono dietro questa domanda apparentemente innocua. Ha giocato anche lui col tempo in tante maniere diverse, leggendo una serie di suoi testi ironici, metafisici, teneri, comici, tragici. Accanto a Benni stava al pianoforte Umberto Petrin, chimico, poeta e musicista, protagonista di tanti concerti/performance che uniscono musica e arti visive e collaboratore da anni di Benni. I suoi interventi sono poche pennellate di suono o ampi affreschi, in cui - sarà la suggestione del tema di questo festival?- il tempo si addensa e si dilata, si ferma in ostinati o scorre via come un rivolo d'acqua.
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