A Monaco un’Aida di guerra
L’opera verdiana all’Opera di Stato Bavarese con molte luci e qualche ombra
Capita anche in un teatrone come quello di Monaco di Baviera: al previsto Radamès, che doveva essere Gregory Kunde al posto di Brian Jagde delle prime recite, va via la voce per un attacco allergico ma la macchina da guerra dell’Opera di Stato Bavarese si mette in moto e salva la recita facendo fortunosamente arrivare Luciano Ganci da Roma direttamente sul palcoscenico del Nationaltheater con nemmeno dieci di minuti di ritardo sulla prevista apertura di sipario. Curiosa coincidenza: gli stessi Kunde e Ganci si erano già passati la staffetta nella recente Aida all’Opera di Roma.
A parte l’inizio da brivido, questa Aida, allestita da Damiano Michielettoe il suo collaudato team, di brividi ne riserva davvero pochi. Per questo sua prima assoluta all’Opera bavarese, il regista sembra affidarsi a canoni estetici piuttosto usuali sulle scene dei paesi di lingua tedesca e soprattutto al collaudato mestiere, che talvolta si accontenta di proporre un’immagine forte ma poi è piuttosto distratto nello sviluppo di una drammaturgia originale e conseguente. Per questa Aida l’idea forte è fare piazza pulita di tutta la tradizionale paccottiglia di egizianerie e mostrare un paesaggio di guerra che parla la lingua del nostro immaginario quotidiano. La scena fissa disegnata da Paolo Fantin, meno ispirato che in altre sue prove recenti, rappresenta una palestra, tradizionale luogo di ricreazione in tempi di pace, squarciata dalle ferite di una violenza bellica, mai mostrata nella dimensione eroica ma piuttosto nelle ferite che lascia in coloro che quella violenza subiscono.
È certamente efficace il gioco di contrasti fra la tronfia esaltazione del conflitto degli Egizi contro i “barbari Etiopi” (la propaganda è una costante di ogni conflitto) e le immagini anche crude che mostrano l’altra faccia della guerra: la bara bianca nella quale si adagia il cadavere di un bimbo proprio quando il Re annuncia la guerra contro il nemico invasore, gli stivali geometricamente riposti su una tela bianca – quasi un anticipo di sepolture imminenti – mentre si celebrano i riti propiziatori all’immenso Fthà, e la mesta processione dei vincitori dai corpi devastati per una “marcia trionfale” che di trionfale non ha nulla culminante nella solita pletorica distribuzione di medaglie sotto una pioggia di cenere nera mentre uno schermo mostra la loro psiche altrettanto devastata e piagata da incubi (i video sono di rocafilm). Quella stessa cenere, diventa una sorta di piramide nera che ingombra una buona metà della scena nella seconda parte dello spettacolo, unica variante nell’impianto sostanzialmente fisso.
Molto meno riusciti sembrano invece i momenti più intimi dell’opera, quelli nei quali vien fuori il Verdi più vero ma nei quali Michieletto sembra non confidare troppo. Aggiungono davvero poco rispetto alla struggente malinconia di “O patria mia” i pleonastici inserti della memoria di Aida che si rivede bambina circondata dall’affetto dei genitori. Così come sorprende, dopo una visione così cruda, la necessità di un riequilibrio con un finale consolatorio piuttosto singolare: il paradiso agognato (o magari solo sognato) da Aida vestita con l’abito da sposa consegnatole dalla madre, finalmente ricongiunta al suo Radamès in compagnia dei morti avvinti in una languida danza. Tralasciando una certa approssimazione nella direzione scenica (e trascurando qualche evidente scivolata, come ad esempio la presenza ben visibile di Amonasro nel momento in cui Radamès rivela i piani di battaglia dell’esercito egizio), il rilievo dato a una figura minore come Ramfis, qui killer di Amonasro e sposo indesiderato di Amneris (“l’enfer c’est les autres”?) appare una divagazione piuttosto gratuita e drammaturgicamente irrilevante. “Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio, molto meglio” diceva saggiamente Verdi, e forse con qualche sforzo inventivo in più si sarebbe potuta evitare la noia, che inevitabilmente si affaccia in quello che vuole essere fin troppo uno specchio della nostra attualità.
Anche sul piano musicale questa Aida fra qualche luce ha diverse ombre, a cominciare da una distribuzione vocale piuttosto diseguale. Notevole la prova di Elena Stikhina, un’Aida psicologicamente introversa, coerente con la visione registica, e dal fraseggio limpido e nobile, mentre invece Ekaterina Semenchuk, che prendeva il posto di Anita Rachvelishvili, è un’Amneris fin troppo focosa ma poco controllata e discontinua nell’emissione vocale e dalla dizione ai limiti del comprensibile. Nell’insolito e scomodo ruolo di doppiatore “last minute” (in scena c’è comunque Gregory Kunde, che conosce i movimenti), Luciano Ganci fa quello che può ed è comunque molto, soprattutto quando, superata una certa iniziale cautela, la voce si scalda e fa ascoltare il bel timbro luminoso al servizio di un ruolo adatto alle sue corde. Nel resto del cast, Georges Petean è un Amonasro di collaudata professionalità, Alexander Köpeczi è un Ramfis dal rilievo anche vocale decisamente insolito, Alexandros Stavrakakis, un re imponente di voce e presenza, e Andrés Agudelo, un messaggero di vocalità ben cesellata. Su tutti domina, comunque, la straordinaria prestazione del coro (rinforzato) dell’Opera di Stato Bavarese preparato ottimamente da Johannes Knecht.
Altrettanto notevole la prova della Bayerisches Staatsorchester: raramente capita di sentire un Verdi con queste densità e precisione di suono (già dal tenue preludio gli archi risaltavano per l’insolita compattezza). Con un tale strumento, ci si poteva permettere forse qualche idea in più di quelle che Daniele Rustioni si è concesso in questa sua Aida, un piacere all’ascolto ma con poche sorprese.
Nationaltheater al gran completo. Dimenticati i fischi al team registico della prima, il pubblico ha risposto con grande calore, con ovazioni per il “salvatore” Ganci, per Stikhina (visibilmente commossa) e per Rustioni. Si replica fino a luglio prima della ripresa già annunciata nella prossima stagione, questa volta con Kaufmann come Radamès.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln
Federico Maria Sardelli e il sopranista Bruno de Sá per un programma molto ben disegnato, fra Sturm und Drang, galanterie e delizie canore, con Mozart, da giovanissimo a autore maturo, come filo conduttore