Mezzo secolo con il Quartetto Arditti
Alla IUC di Roma concerto per il cinquantesimo anno di carriera del quartetto
Nel 1974 quattro studenti della Royal Academy of Music fondarono un quartetto, chiamandolo “provvisoriamente” col nome dal primo violino Irvine Arditti, che dopo cinquant’anni è l’unico del gruppo a non essere cambiato. Ma non sono affatto cambiate la qualità eccelsa del gruppo e la sua dedizione pressoché esclusiva alla musica contemporanea, con centinaia di quartetti in repertorio, molti dei quali sono stati composti proprio per quest’ensemble, che cerca sempre di collaborare con gli autori eseguiti: questo scambio reciproco è fondamentale nella musica contemporanea, sia per il compositore che per gli interpreti.
Che l’Arditti sia in grado di cambiare programma ad ogni concerto dimostra la sua assoluta padronanza di questo repertorio estremamente complesso, non soltanto sotto l’aspetto puramente tecnico. Così il concerto all’Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma nell’Aula magna della “Sapienza” è totalmente diverso da quelli eseguiti nei concerti precedenti e successivi dell’Arditti.
Ovviamente sono sempre concerti imperniati sulla musica contemporanee. Quello romano includeva quattro dei più importanti rappresentanti dell’avanguardia della seconda metà del ventesimo secolo, nati negli anni Venti o nei primi anni Trenta. Seppur diversi tra loro, questi quattro compositori avevano in comune la convinzione che si potesse tornare alla formazione cameristica classica per eccellenza soltanto trasformandone totalmente la sonorità. Il suono degli strumenti ad arco diventa vitreo e incorporeo o rugoso e concreto, ricorrendo a pianissimo e fortissimo estremi, a modi di attacco inconsueti, tremoli, trilli, glissando, suoni armonici e quant’altro, per evitare che anche una sola nota abbia il suono naturale di questi strumenti. Anche se ormai sono passati cinquant’anni e più, le loro composizioni per quartetto d’archi aprono all’ascoltatore un mondo sonoro ancora oggi nuovo, sorprendente e affascinante, tutto da esplorare.
Si è iniziato con Krzysztof Penderecki, e non deve essere stato un caso, perché a lui era interamente dedicato il primo concerto del Quartetto Arditti nel 1974. Il suo Quartetto n. 2 (1968) inizia con un accordo dissonante e lacerante dei quattro strumenti, subito seguito da note brevissime e pianissimo, che creano ronzii appena percepibili e brusii misteriosi, interrotti da isolati gridi in fortissimo. Poi le parti s’invertono e a predominare sono le sonorità aspre e aggressive, fino ad un sorprendente finale, dove s’impongono sonorità terse ed eteree. È evidente qui che questa ricerca sul suono va di pari passo con una drammatizzazione degli eventi sonori da parte dell’autore dei Treni alle vittime di Hiroshima, del Dies Irae in memoria delle vittime di Auschwitz e dei Diavoli di Loudun.
Anche Sincronie (1964) di Berio ha una prima parte che suona come un brusio sommesso, creato però con note tenute dei quattro strumenti, che si alternano, si rispondono e si uniscono: non una serie di eventi sonori isolati ma non ancora un dialogo. Sicuramente nulla è casuale e l’evoluzione del materiale sonoro è attentamente calcolata. Lo confermano gli abbozzi preparatori di Berio: uno schizzo con l’articolazione globale della composizione e un altro schizzo con i piani armonici, intervallari e ritmici. Questo strutturalismo dà solidità al brano ma non impedisce – anzi probabilmente ne è la causa – che Sincronie si dilunghi e si raffreddi e alla lunga l’interesse dell’ascoltatore si attenui.
Terzo compositore e terzo modo di organizzare quelle nuove sonorità del quartetto che sono sostanzialmente comuni alle altre due composizioni, risalenti tutte a un breve giro di anni. I due brani precedenti erano fusi in un unico blocco, invece György Ligeti divide il suo Quartetto n. 2 (1968) in cinque movimenti, per ognuno dei quali dà non soltanto l’indicazione del tempo ma una definizione che potremmo definire espressiva, rispettivamente “nervoso”, “molto calmo”, “come un meccanismo di precisione”, “furioso, brutale, tumultuoso” e infine “con delicatezza”. Ma ovviamente non si tratta affatto di esprimere stati d’animo in senso romantico, ma piuttosto di creare nei singoli movimenti un ambiente sonoro caratterizzato e fortemente contrastante con i movimenti contigui. Da notare come nel “meccanismo di precisione” del terzo movimento Ligeti riprenda chiaramente l’idea del suo “Poema sinfonico per 100 metronomi”, sostituendo però un tono lieve e scherzoso alla totale meccanicità di quella precedente composizione: è l’indizio che l’età della ricerca e della sperimentazione stava giungendo al termine.
Il quarto compositore, Iannis Xenakis, era all’incirca coetaneo dei precedenti tre ma scrisse Tetras nel 1983, quasi due decenni dopo le musiche ascoltate prima, e infatti la ricerca di nuove sonorità non è totalmente accantonata ma non è più centrale. I quattro strumenti sono trattati (tranne l’iniziale assolo di violino e altre rare eccezioni) come un’unità compatta e procedono insieme omoritmicamente o comunque concorrono a produrre un unico effetto, con glissando, ostinati ed effetti percussivi simultanei. Tutto questo, unito spesso a velocità vertiginose e a dinamiche estreme, porta a momenti di grande forza e tensione e fa sì che tra i quattro brani questo sia quello che più cattura l’ascoltatore.
Il Quartetto Arditti ha poi presentato in prima italiana due recentissimi lavori del britannico James Clarke e della slovena Nina Senk, che sono rispettivamente di una e di due generazioni successive ai quattro precedenti compositori. Il Quartetto n. 5 (2020) di Clarke integra in un discorso molto coeso anche momenti come lo slancio virtuosistico del primo violino: la varietà stimola la percezione dell’ascoltatore e la coerenza evita al brano di disperdersi in episodi incoerenti. To see a world in a grain of sand (2022) della Senk usa sonorità delicate e dà particolare attenzione ai dettagli timbrici e dinamici, creando una suggestiva atmosfera ricollegabile al titolo poetico. Entrambi questi lavori sono ben pensati e ben scritti ma è inevitabile che appaiano un po’ tenui al confronto della musica dei quattro grandi del ventesimo secolo che li hanno preceduti.
Durante tutto questo concerto durato due ore con un intervallo piuttosto breve e colmo di difficoltà musicali e tecniche che impegnano senza un attimo di tregua la mente e le dita degli esecutori, il Quartetto Arditti è stato non soltanto sempre perfetto, facendo rifulgere la novità e l’interesse della ricerca sonora di queste composizioni contemporanee, ma ha dato loro anche incisività e tensione, tenendo sempre viva l’attenzione degli ascoltatori.
Il pubblico non esauriva la vasta Aula magna della “Sapienza” ma era comunque numeroso e attento e ha mostrato la propria approvazioni con applausi calorosi e prolungati. Non sappiamo quale altra istituzioni concertistica a Roma (e forse in Italia) abbia un pubblico come quello che l’Istituzione Universitaria dei Concerti è riuscita a fidelizzare in anni e decenni di programmazione coraggiosa e aperta a tutte le musiche.
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