Mastorna degli spiriti
Al Teatro Galli di Rimini va in scena l’opera Il viaggio di G. Mastorna di Matteo D’Amico tratta dalla sceneggiatura del film mai realizzato di Federico Fellini
Uno “sgangherato racconto”, che poi è quella del film mai fatto più famoso, citato e trasposto della storia del cinema, secondo la paradossale definizione attribuita al fellinologo Vincenzo Mollica, Il viaggio di G. Mastorna. Quel film mai fatto il suo regista, Federico Fellini, lo descrisse così: “A dirla in due parole, è la storia di uno che è morto e non lo sa”.
Un incidente aereo e un altro viaggio che comincia proprio dove quello precedente si è interrotto. Un viaggio “via via sempre più strano, sempre più inquietante” (Fellini) fra presenze misteriose e stravaganti, fra ricordi e sogni, tragico ma anche divertente, come divertente può essere un clown triste. Soprattutto una morte che somiglia fin troppo alla vita, a quella vissuta fin là dal protagonista, G. (Giuseppe) Mastorna, violoncellista, che non si capacita della sua condizione perché in quella ressa di spiriti così simili agli umani, anche e soprattutto nelle loro mancanze, non c’è davvero niente che lo convinca che qualcosa è cambiato: “Non è possibile! Non è possibile che la morte sia questa! … Sarebbe questa la seconda vita, la vera vita? Questo il traguardo dopo anni di paure, di ansie, di solitudine? Questa la favolosa Morte? In questo regno di Dio, ogni cosa è confusa, tutto è incomprensibile. Deve pur esserci qualcosa di diverso, diverso da ciò che c’era prima.”
L’ispirazione venne dal racconto breve Lo strano viaggio di Domenico Molo che Dino Buzzati scrisse negli anni Trenta. Trent’anni dopo si misero in quatto per scrivere la sceneggiatura: lo stesso Buzzati, Bernardino Zapponi, Brunello Rondi e Fellini. Il produttore c’era e di peso, Dino De Laurentiis, si costruì il set, si fecero i provini con Mastroianni come Mastorna (salvo poi assumere l’aspetto di Paolo Villaggio nel fumetto che Manara realizzò su quella storia). Ma poi non se ne fece nulla, chissà se per le incomprensioni fra Fellini e De Laurentiis, oppure per l’estrema inquietudine provocata dal verdetto del sensitivo Gustavo Rol, molto ascoltato da Fellini (“Non devi fare un film sulla morte”), o forse per la malattia che costrinse il regista a rinviare il progetto sine die. E del Mastorna non si parlò praticamente più anche se lo stesso Fellini ebbe a dire che “come il relitto di una nave affondata, è andato a nutrire tutti i miei film successivi.”
Di quello sgangherato racconto si torna a parlare ora nella sua Rimini e l’occasione è quella del centenario della nascita di Fellini. Non si tratta però di un film ma di un’opera fantastica in tredici quadri di Matteo D’Amico nata da un’idea di Cinzia Salvioli e Valerio Tura come affettuoso omaggio al regista e commissionata dal Teatro Galli di Rimini, che ne ha accolto la prima assoluta, e dal Teatro Alighieri di Ravenna.
Oltre alla musica, D’Amico ha firmato anche l’adattamento della sceneggiatura a libretto per il suo lavoro, che dell’originale conserva una certa frammentarietà, tipica della narrazione cinematografica del Fellini maturo e componente fondamentale della sua poetica. La stessa frammentarietà si ritrova nella successione rapsodica degli episodi musicali racchiusi fra due madrigali su versi dell’Inferno di Dante, quasi una chiave di lettura al viaggio del protagonista, certo non estranea all’intenzione di Fellini. Gli episodi sono cuciti insieme dalla voce di un narratore, che si immagina essere lo stesso Fellini. Ogni episodio musicale tende a fare storia a sé per stile e colore, dando al complesso del lavoro un carattere musicalmente piuttosto eterogeneo. D’Amico evita saggiamente facili citazionismi o banali mimetismi felliniani (o piuttosto rotiani), anche se inevitabilmente la frenesia circense di alcune scene o la sospensione estatica di altre non può non evocare le atmosfere del regista riminese. Ma il materiale musicale, pur nella meticolosità della scrittura specialmente nel sofisticato colore strumentale – ben servita dall’impeccabile esecuzione dell’Orchestra Arcangelo Corelli diretta da Jacopo Rivani – manca di un vero respiro operistico. In questo senso, non aiuta nemmeno troppo il trattamento delle voci, risolto in un declamato da “Konversationstück” piuttosto uniforme lungo tutte le due ore del lavoro, che depotenzia la carica drammatica soprattutto del protagonista Mastorna, essendo la moltitudine degli altri personaggi poco più che uno schizzo di colore sul piano drammaturgico. In questo senso, non risalta nemmeno l’indignato monologo del rifiuto della medaglietta in similoro a una vita esemplare, il solo momento in cui il protagonista sembra tragicamente prendere coscienza della sua condizione, trascinato fin a quel momento dall’incalzante flusso di strani accadimenti.
Un protagonista che al Teatro Galli trovava in Luca Grassi un interprete di affidabile professionalità ma nel complesso poco empatico. Fra le numerose figurine di contorno, le caratterizzazioni più riuscite sono sembrate quelle di Ken Watanabe, di Vittoria Magnarello e soprattutto di Yulia Tkachenko, impegnata nel doppio ruolo della hostess e della tata Jole. Poco risolta era la prova di Eleonora Lué nel significativo ruolo dell’amante di Mastorna, mentre Aslan Halil Ufuk si faceva notare soprattutto per l’esuberanza scenica. Fra i ruoli non cantati, Marco Manchisi lasciava il segno con la sua disinvolta e divertente caratterizzazione di Armandino Proboscide.
Concepito come “studio in forma semiscenica”, il riuscito allestimento firmato dal regista Valter Malosti, che prestava anche la voce al narratore, utilizzava efficacemente i pochi mezzi a disposizione per uno spettacolo ricco di immagini poetiche. Lo scenografo Davide Amadei, autore anche dei coloratissimi costumi, creava uno spazio neutro racchiuso fra il velatino sul boccascena e il fondale, sui quali le doppie proiezioni curate da Sergio Metalli ricreavano efficacemente un immaginario fantastico e molto felliniano fatto dei suoi disegni esagerati, delle visioni oniriche di Manara e dei frammenti di Bloc-notes di un regista, il quasi documentario realizzato da Fellini fra i relitti scenografici del suo film mai nato. E nel buio di quello spazio vuoto i fasci di luce disegnati da Cesare Accetta davano vita alla sarabanda dei personaggi rendendoli immateriali come la sostanza di cui sono fatti i sogni.
Nell’unica recita in programma a Rimini, un pubblico particolarmente attento e partecipe salutava tutti gli interpreti con applausi generosi.
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