Manfred c’est moi

Romantici, adesso

Recensione
oltre
«Manfred c’est moi» qualcuno lo può dire davanti a Walter Malosti che arraffa asta e microfono e recita un po’ come un Jim Morrison stagionato e sexy i versi di Byron tradotti magistralmente da Enzo Moscato per questa coproduzione Teatro Stabile | Teatro Regio Torino diretta in regia da Andrea De Rosa. L’Orchestra del Regio sulla scena velata e poco udibile dietro una quarta parete trasparente, il sempre eccellente Coro del Regio sgranato sui praticabili, Gianandrea Noseda a dirigere: tutti laggiù, nella semioscurità, come la musica di Schumann stavolta più che mai “incidentale”. Davanti sul proscenio ci sono lo splendido cadavere nudo della Lei, di Astarte (assolutamente superfluo provocatoriamente sensuale) e lui, Manfred-Jim Morrison, che sussurra nel microfono e poi urlacchia stizzoso in uscita, vaghissimamente ricordando che non si passa di qui senza Carmelo Bene.

«Il mio sonno non è un sonno, è un torpore. L'insistenza di un pensiero ossessionante, cui mi abbandono senza resistere. Il dolore dovrebbe essere maestro dei saggi, soffrire è conoscenza; quelli che più sanno, più duramente piangono la verità raggiunta… Dimenticare, dimenticarmi». Perché uno spettacolo così ci brucia oltre una sera qualsiasi a teatro (oggi al Carignano, dal 19 al Regio)? Perché “Manfred” fatto da Malosti o “Lélio” fatto da Gérard Depardieu (a Ravenna) o Luca Lionello (a Rimini) sono romanticismo nostro contemporaneo, strazi ossessivi di amori tranciati da lutti di abbandono, come la delicata radiosa full of love Fanny Brawne e John Keats al cinema, sullo schermo di Jane Campion e del suo “Bright Star”. Così è: nel giorno per giorno, siamo raccontati in scena come nessuno ci potrebbe raccontare. Senza catarsi, ma almeno riconoscibili, e romanticamente perfetti nel nostro radioso dolore.

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