Ma allora Giovanna d’Arco non è affatto un’opera debole
Rivelatrice la direzione di Daniele Gatti
Giovanna d’Arco aveva la fama di essere la più brutta opera di Verdi, insieme ad Alzira, ma ora bisogna riconoscere che Verdi aveva qualche buon motivo per affermare che fosse l’opera migliore da lui scritta fino ad allora (era il 1845). E adesso non resta che aspettare il momento di riscoprire anche Alzira e allora si capirà che Verdi non ha scritto nessuna opera “brutta”.
Per la riscoperta di Giovanna d’Arco dobbiamo ringraziare soprattutto Daniele Gatti. Si capisce che si ascolterà una Giovanna d’Arco “nuova” fin dalle prime battute della Sinfonia, che inizia con un lungo rullo dei timpani - a cui dà miracolosamente un suono leggerissimo, sottile, quasi immateriale - su cui s’innesta il tema degli archi, dapprima pianissimo, per raggiungendo il fortissimo con un lungo e ben graduato crescendo: quest’orchestrazione semplice ma raffinata e il tema cromatico di sorprendente modernità (per Gatti il cromatismo è il vero leitmotiv di quest’opera) danno subito il segnale che non è affatto un opera volgare e rudimentale. Anche il motivo pastorale e quello guerresco che seguono vengono trattati da Gatti con attenzione e si rivelano non originalissimi ma nemmeno grossolani. E la coda di questa Sinfonia è trascinante e iperdrammatica ma nient’affatto bandistica. Anche quando si alza il sipario, Gatti legge la partitura con grande attenzione e rispetto per le intenzioni di Verdi e mette così in luce molti altri momenti che rivelano una scrittura nient’affatto banale e soprattutto una drammaturgia che va al di là dei “soliti” temi verdiani, quali l’amore contrastato e il patriottismo quarantottesco. Ma non si ritrae affatto quando Verdi punta dritto all’effetto drammatico di forte e immediato impatto.
Anche l’articolazione delle varie scene è originale rispetto alle regole del tempo. Non una sfilza di cavatine e cabalette dei protagonisti (vedasi il primo atto dei Masnadieri) ma una grande varietà di soluzioni. Solo un paio di esempi: alla sua entrata in scena Giacomo, uno dei tre protagonisti, canta un recitativo e subito esce, lasciando sicuramente a bocca aperta gli ascoltatori dell’epoca. Dopo la cavatina di Giovanna non c’è la regolamentare cabaletta ma si apre un ampio e complesso finale, durante il quale inizia effettivamente un brano definito cabaletta, che in realtà si rivela un duetto, che a sua volta si trasforma in un terzetto a cappella. E poi c’è la presenza pervasiva del coro, che dà quasi ad ogni pezzo un’articolazione più mossa e complessa.
Sicuramente Verdi non ha fatto tutto questo per dimostrarsi originale, ma spinto dal soggetto molto particolare. La pulzella d’Orléans è una protagonista insolita per le scene melodrammatiche del tempo, è “diversa”, ha visioni mistiche, sente le voci, forse è un po’ “pazzerella”, come la definisce il coro, forse è una strega, come credevano i contemporanei che la mandarono al rogo, forse è una santa, come decise la chiesa, ma molto tardivamente, poiché la canonizzazione avvenne soltanto nel 1920. Oggi ci rivolgeremmo a uno psicanalista, che diagnosticherebbe – azzardo – che Giovanna era schizofrenica. Allora il lettino di Freud non era ancora entrato in funzione, ma a Verdi era comunque ben chiaro che avesse una psiche disturbata. E anche Enrico VII di Francia e soprattutto Giacomo, il padre di Giovanna, qualche problemino dovevano averlo.
Davide Livermore imposta la sua regia su questa “diversità” di Giovanna, ma legge la sua storia sulla base sulle moderne teorie psicanalitiche bensì cercando di vederla con gli occhi dei suoi contemporanei, per cui le visioni che ispiravano le azioni di Giovanna erano o angeliche o diaboliche, tertium non datur. A dire il vero il fatto che nella sua regia regia Giovanna abbia un doppio, rappresentato da una ballerina, sembrerebbe un modo di avvalorare la sua schizofrenia, ma molto più importante è il ruolo giocato da una schiera di angeli e da una di demoni, che sempre circondano la protagonista: gli angeli hanno le ali ma per il resto li si potrebbe confondere con i demoni, come a dar corpo alle incertezze dei contemporanei di Giovanna, che si divisero tra chi la considerava una santa ispirata dal cielo e chi una strega succube delle forze infernali. Invece la lotta per liberare la Francia dall’invasore inglese ha un ruolo marginale nella regia, come d’altronde nella musica di Verdi.
L’interpretazione di Livermore è condivisibile nelle linee generali, mentre meno convincente è la sua realizzazione, anche per l’eccessivo l’affollamento del palcoscenico e i troppi balletti e ballettini gratuiti e distraenti, con coreografie dello stesso Livermore, che non è un coreografo, e si vede. I video di D-Wok inviano molte suggestioni allo spettatore, ma il loro significato resta – volutamente? – oscuro. La fiamma che arde all’inizio è la fiamma del misticismo o il fuoco dell’inferno? La farfalla che vola sul quel fuoco e si brucia le ali, è Giovanna?
Ottimo il cast. Sono solo cinque personaggi, perché tutto è molto concentrato ed essenziale. Di questi cinque, Delil ha sì e no una ventina di parole in tutto, ma Leonardo Trinciarelli merita egualmente di essere citato, perché l’ha realizzato molto bene. Il comandante inglese Talbot ha un certo rilievo nella prima metà del primo atto ma nel resto dell’opera non compare mai: Dmitry Beloselsky è un vero lusso per una parte come questa. I tre protagonisti hanno invece parti lunghe, faticose e difficili. Giovanna è Nino Machaidze; non ha un timbro di particolare bellezza, ma una tecnica ottima e soprattutto un grande temperamento, senza però mai lasciarsi trascinare dalla foga a sottolineature drammatiche fuori luogo: una grande protagonista. La parte di Carlo VII re di Francia è ideale per Francesco Meli, che vi trova ampie praterie per la sua voce limpida, ben timbrata, sicura, mai sforzata. Dulcis in fundo, Roberto Frontali nella sua splendida maturità d’interprete esprime tutta la gamma di sentimenti di Giacomo, un personaggio contraddittorio – e poco credibile, se vogliamo – ma interessantissimo.
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