“L’ultimo viaggio di Sindbad”, metafora di una tragedia moderna
Prima assoluta del “racconto musicale in 7 quadri” di Silvia Colasanti
Mentre al Teatro Costanzi proseguivano le repliche del Peter Grimes di Britten, al Teatro Nazionale – il secondo e più piccolo palcoscenico in dotazione alla fondazione lirica romana – è andato in scena L’ultimo viaggio di Sindbad, nuova creazione di Silvia Colasanti. Il caso vuole che in entrambe le opere il mare sia non soltanto uno sfondo ma un protagonista, anzi il protagonista, ma le somiglianze finiscono qui.
In realtà L’ultimo viaggio di Sindbad non è esattamente un’opera, non almeno nel senso tradizionale, perché manca un plot drammatico e mancano quasi totalmente i personaggi, tanto che le varie voci che a turno vengono in primo piano non hanno nemmeno un nome, ad eccezione di Sindbad, interpretato da Roberto Frontali, raro caso di un grande cantante che mette la sua voce e la sua intelligenza al servizio di una prima assoluta, cosa che va indubbiamente a suo ulteriore merito. Gli altri sono definiti come Nostromo, Uomo della preghiera, Uomo del mare o La Memoria, interpretati in modo impeccabile rispettivamente da Paolo Antognetti, Roberto Abbondanza, Vincenzo Capezzuto e Annunziata Vestri. Forse potrebbe essere definito oratorio, specificando però che è un oratorio laico e in forma scenica. La Colasanti non si sbilancia e nella partitura lo indica come “racconto musicale in 7 quadri”. Poi nella presentazione autografa sul programma di sala paragona questi sette quadri alle “stazioni di una laica via crucis marittima”. Potremmo anche spingerci a paragonarli ai sette pannelli d’un polittico del Trecento, ognuno dei quali rappresenta una scena o un personaggio, che qui però non sono bloccati nell’eterna immobilità della pittura ma rivivono un episodio della loro vita. E il fondo oro dei polittici è qui sostituito dal mare, non terso e benevolo come lo vedono i vacanzieri ma cupo e minaccioso come lo vivono i profughi.
Il titolo fa un chiaro riferimento alle Mille è una notte, che però sono soltanto un punto di partenza per il libretto di Fabrizio Sinisi, che piuttosto si è liberamente ispirato a testi di Erri De Luca. Sindbad è l’uomo di mare per antonomasia ed è spinto a navigare dallo stesso impulso che - in secoli e millenni diversi - riconosciamo anche nell’Ulisse dell’Odissea e della Divina Commedia e nel capitano Achab di Moby Dick. Il suo viaggio è - parafrasando le parole della compositrice stessa - metafora di ogni percorso interiore ed esteriore. Però Sindbad, che inizialmente è cinico e duro ma poi rivela un’umanità inaspettata ma pur sempre ombrosa e poco empatica, non è il protagonista assoluto. A contendergli questo status sono sia il mare sia gli esseri umani imbarcati sulla nave e rinchiusi nella stiva opprimente e soffocante (belle e funzionali le scene di Leila Fteita o piuttosto la scena unica, appena leggermente modificata nel corso dell’opera). Da questa umanità viva e palpitante ma anonima si staccano alcune individualità, che raccontano le loro storie. Ci sono due sorelle, interpretate da Elisa Balbo e Alice Rossi, una delle quali è gli occhi dell’altra, che è rimasta cieca per la violenza subita durante la guerra civile che sconvolge il suo paese. C’è un soldato che si è rifiutato di sparare contro i suoi fratelli e ha disertato: lo interpreta il tenore Giorgio Misseri, che abbiamo ascoltato varie volte in Rossini e che si dimostra altrettanto a sua agio in quest’opera contemporanea. C’è una madre che sotto i bombardamenti ha perso il figlio ancora in fasce (contenuto e dolente il canto di Daniela Cappiello).
Questi personaggi si esprimono spesso con un declamato che a tratti può risultare piuttosto uniforme: è un problema ricorrente nella musica degli ultimi decenni, perché i compositori da una parte non vogliono essere accusati di neomelodismo e dall’altra non se la sentono di ricorrere ai fonemi spezzettati tipici delle ex avanguardie. Sembrerebbe che non sia possibile una soluzione ma in realtà qualche altra possibilità esiste. La Colasanti aggira il dilemma ribaltando i termini della questione: l’interesse maggiore si concentra non tanto sulle voci soliste ma sull’orchestra, che con sonorità prevalentemente leggere e liquide crea una gamma inesauribile di colori ora lucenti e ora velati, ora sereni e ora inquietanti, sempre cangianti come la superficie del mare e i riflessi del sole e della luna sulle sue acque delicatamente increspate o tempestose (da sottolineare l’attenta e preziosa direzione del giovane Enrico Pagano). Il declamato è inoltre interrotto a più rirese dalla preghiera e dalle canzoni intonate dai passeggeri della nave su affascinanti melodie esotiche, non sapremmo dire se inventate dalla Colasanti o tratte dal canto tradizionale delle popolazioni del vicino oriente. E negli ultimi minuti la Colasanti suscita e affida al coro una splendida, immateriale, trasfigurata melodia, semplice ed emozionante, la cui suggestione è aumentata dalla regia di Luca Micheletti, che l’abbina allo sfilare di una lenta processione di figure nere tra gli spettatori, nella penombra della platea.
Si intuisce che quei naviganti sono migranti, in fuga dai loro paesi per cercare non tanto di avere una vita migliore quanto di sopravvivere, perché non sono più nemmeno capaci di immaginare e sperare una vita felice o almeno normale. E si intuisce anche che il loro viaggio non raggiunge la meta ma si conclude nel fondo del mare, che inghiotte la nave e i suoi passeggeri. Ma la Colasanti ce lo lascia appunto intuire, non lo proclama a gran voce, non le interessa assolutamente prendere una posizione politica, d’altronde il destino di persone meno fortunate di noi è una questione che coinvolge o dovrebbe coinvolgere profondamente la morale e l’umanità ed eventualmente la religiosità di ognuno e non è un argomento su cui schierarsi in base a posizioni politiche, usando la politica nel modo più deteriore. L’Ultimo viaggio di Sindbad mette in musica e porta in scena senza sentimentalismi pietistici ma in modo toccante e poetico (lasciatemi usare quest’aggettivo desueto) queste storie di singoli e di un’intera collettività. Tutti gli spettatori, che riempivano la platea del Teatro Nazionale e inevitabilmente dovevano avere le idee politiche più diverse, l’hanno capito e hanno seguito in attento silenzio l’ora e un quarto di questo racconto musicale, per applaudire alla fine con un’intensità e un calore speciali.
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