Lohengrin o della psicanalisi

Successo alla Scala che apre con Wagner riletto da Claus Guth

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Richard Wagner
07 Dicembre 2012
Basterebbe l'incanto di "In fernem Land" cantato da Jonas Kaufmann e sostenuto da una orchestra eterea controllata in ogni particella da Daniel Barenboim per ricordare questo "Lohengrin" che inaugura la stagione scaligera. Ma andrebbero segnalati anche i preludi, le cupezze del secondo atto, la crescente tensione del duetto del terzo, insomma dal punto di vista musicale un'edizione di primissimo piano, con un cast da cui emerge la coppia protagonista: oltre a uno splendido Kaufmann nel ruolo a lui più congeniale, Annette Dasch nei panni di Elsa, che ha sostituito all'ultimo Anja Harteros, a sua volta sostituita da Ann Petersen nell'anteprima per i giovani (entrambe stroncate dai virus aleggianti al Piermarini). Un rimpiazzo felice perché Dasch, già Elsa a Bayreuth, ha forse una voce flebile per lo spazio del Piermarini, ma elegante e duttile, e in compenso una padronanza della scena da grande interprete. Ingenua, tenera, caparbia. Re Enrico è il sempre autorevole René Pape. Corretta Evelyn Herlitzius come Ortrud, pur se più biliosa che veggente vendicatrice, mentre Tomas Tomasson come Telramund è vocalmente il più debole dei cinque. Quanto alla messa in scena, va riconosciuto che lo spettacolo è bello visivamente e coerente con l'ambientazione ottocentesca: un'archeologia industriale posticipata di una cinquantina d'anni rispetto alla data di composizione. Coerente anche la lettura psicanalitica della vicenda. Claus Guth è un regista che non vuole ascoltare la favola di Wagner, secondo lui il cavaliere misterioso e il cigno diventano proiezioni di Elsa, pure il fratellino scomparso e magari tutti gli altri. Così a Lohengrin tocca una specie di nascita da cigno in proscenio. Ora si atteggia a volatile spastico, svuotando le tasche piene di penne, ora gioca al ragazzo selvaggio scalzo, dimentico della sua eroicità (alla quale talvolta è costretto dalla partitura). Quando indossa scarpe e frac per sposarsi, appena può se ne libera per bagnare i piedi nella Schelda. Da parte sua Elsa vanta un suo doppio da bambina, vittima delle angherie della maestra di musica Ortrud che la bacchettava quando sbagliava al pianoforte. Strumento posteggiato in scena a catalizzare i meandri della psiche, dove spesso si perde Elsa quando non stramazza sopraffatta dall'isteria. Nella confusione mentale della protagonista, materializzata in palcoscenico, il cavaliere, il cigno, il fratellino scomparso diventano un tutt'uno. Quest'ultimo compare spesso con un'ala posticcia e anche lui dispone di un suo doppio bambinetto, ora cadaverino portato al cimitero (a illustrare il terrore di Elsa di averne provocato la morte), ora soldatino con la spada di legno che tiene per mano la sorellina. Il legame fra loro è talmente forte che alla fine Elsa lo chiama "mio sposo" (contrariamente alle disposizioni di Wagner), prima di annegarsi come Ofelia e suggerire così un risvolto incestuoso anticipatore di "Valchiria". In sostanza Guth arricchisce talmente la trama da renderne ardua la decriptazione (formula appropriata alle chiacchiere nel foyer ma inadatta ad attirare un nuovo pubblico giovanile) e finisce per vanificare alcuni momenti drammaturgicamente forti: come a esempio l'invocazione agli dei spodestati, solitamente da brivido, ma qui sprecata da una Ortrud accovacciata su una scrivania. Accantonata la tesi dell'impossibilità di un'unione fra la trascendenza e la realtà umana a favore dell'analisi del profondo, la morale della non favola pare proprio contraria all'intenzione del regista: guai sviscerare una turba psichica, meglio lasciarla sepolta dove sta, altrimenti son guai. Al termine grandi ovazioni per tutti, specie per Annette Dasch arrivata in teatro a provare la mattina (e in partenza definitiva per Berlino la sera stessa) e per Jonas Kaufmann. Gli applausi agli interpreti sono stati poi interrotti dall'esecuzione dell'inno nazionale col coro in palcoscenico, per ovviare alla gaffe del teatro che non l'aveva fatto suonare all'inizio (stigmatizzata dal ministro Passera, arrivato col premier Monti nel palco reale). Altra sostituzione della serata, escogitata all'ultimo momento, che forse ha protetto Guth dal pericolo di qualche contestazione.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

In programma Čajkovskij e Gon 

classica

Un memorabile recital all’Accademia di Santa Cecilia, con Donald Sulzen al pianoforte

classica

La tappa torinese per i sessant’anni della cantante