L’incerto ritorno di Adelaide di Borgogna al ROF
Quest’opera si rivela più interessante di quanto si pensasse un tempo, ma fatica a prendere il volo
La terza opera del Rossini Opera Festival è stata Adelaide di Borgogna, spesso bistrattata come “la peggiore opera seria di Rossini”: a cominciare fu Giuseppe Radiciotti, autore del primo grande studio sulla vita e le opere del compositore pesarese, pubblicato in tre volumi nel 1927-1928. Oggi un musicologo si esprimerebbe in modo più circostanziato e non oserebbe mai una definizione così tranchant, ma per rimanere su quel livello si potrebbe dire che, se non è la peggiore, non è neanche la migliore, soprattutto se confrontata con le opere serie che la precedono e la seguono: ma quelle sono opere “napoletane”, scritte per il San Carlo, che era un mondo totalmente a parte rispetto a quello dell’opera seria degli altri teatri italiani, fossero la Scala, la Fenice o l’Argentina, che è appunto il teatro romano per cui Rossini scrisse nel 1817 Adelaide di Borgogna. Da subito quest’opera non incontrò il favore del pubblico né della stampa e, nonostante il venticinquenne Rossini fosse il compositore più noto ed amato del tempo, dopo poche riprese sparì dai palcoscenici nel 1825, per non ritornarvi che nel 1978 e molto sporadicamente.
Eppure non è un’opera “brutta”. La struttura è quella vecchia, con una sfilza di cavatine e di arie interrotta da alcuni pezzi d’insieme e cori puramente decorativi, ben lontani dalla fondamentale funzione strutturale e drammatica che il coro avrà nella successiva opera rossiniana, Mosè in Egitto. Rossini, nonostante abbia avuto pochissimo tempo per scrivere l’Adelaide di Borgogna, scrive arie e concertati di pregevole fattura e dà all’orchestra un’attenzione che risente delle opere napoletane di quegli anni. Il problema è che questa musica raramente prende il volo - forse anche per rimanere aderente alla cupissima atmosfera altomedievale del libretto - e insomma ha tutte le caratteristiche della musica di Rossini tranne quella di catturare lo spettatore e trascinarlo in un altro mondo. In certi momenti sembra un’imitazione dei modi rossiniani più che un Rossini autentico: probabilmente pesa la collaborazione che l’amico Michele Carafa - compositore per altro decorosissimo - prestò a Rossini, in affanno a finire la sua opera in tempo per la data fissata.
La direzione di Francesco Lanzillotta è stata un modello di eleganza stilistica. Ha valorizzato la scrittura orchestrale di Rossini, qui particolarmente curata e ricca. Grande l’attenzione ai colori: pensiamo ai corni che evocano atmosfere preromantiche e alle percussioni - che come in Eduardo e Cristina lavorano molto, infatti molti pezzi sono in comune tra le due opere - contenute qui nei limiti opportuni. I tempi sono sempre giusti, vibranti ma non precipitati nei momenti veloci, morbidi ma non languidi in quelli lenti. Ideale l’equilibrio tra le voci e tra le voci e l’orchestra. È anche grazie a questa esemplare direzione che l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai si è riposizionata sul suo ottimo livello, facendo dimenticare la non sempre felicissima prova nell’Eduardo e Cristina inaugurale.
Adelaide era Olga Peretyatko, che per anni è stata ospite abituale del ROF e ora vi è tornata dopo una lunga assenza, durante la quale ha cantato tutt’altro repertorio. Le agilità non sono gloriose e sgranate ma appena sfiorate e il registro medio-grave - su cui la parte insiste spesso – è un po’ fievole. Però, soprattutto quando si può distendere nei cantabili. la sua voce s’impone con gli accenti drammatici, le patetiche mezze voci, gli acuti sicuri: insomma la maturità e la classe dell’interprete vincono sulla materia. L’altra protagonista era Varduhi Abrahamyan, che si è confermata ottima interprete di ruoli en travesti: la voce omogenea in tutti i registri, la coloratura nitida e vigorosa, il fraseggio scolpito sono ideali per Oddone, autorevole e guerresco imperatore germanico dell’alto medioevo. La voce di René Barbera si è trasformata, ha acquisito robustezza e volume ed è più ricca di armonici, mantenendo però la facilità della salita all’acuto e l’agilità delle colorature: un ottimo Adelberto. Bella voce di basso, usata con buona tecnica e stile giusto, quella di Riccardo Fassi, che era Berengario, cui spetta una sola aria (e non di Rossini). Bene anche Paola Leoci e Valery Makarov, rispettivamente come Eunice e Iroldo: anche a loro spettava un’aria a testa. Antonio Mandrillo completava adeguatamente questo bel cast.
Il regista Arnaud Bernard – con le scene di Alessandro Camera e costumi di Carlo Maria Ricotti – ha rappresentato non il cupo medioevo di Adelaide di Borgogna ma le prove di Adelaide di Borgogna in un teatro moderno, cioè la confusione che regna in palcoscenico in quelle fasi della preparazione dello spettacolo, il via vai dei tecnici che montano pezzi di scenografia o provano le luci, i disguidi e soprattutto gli eterni bisticci tra i cantanti: un’idea ma nient’affatto nuova, anzi ci sono addirittura intere opere che sono basate su quel che succede dietro le quinte. Non per caso si tratta però sempre di opere comiche e infatti il pubblico della Vitrifrigo Arena rideva spesso e volentieri, forse consolandosi così della cupezza alquanto uniforme di Adelaide di Borgogna. Dunque la regia escludeva in partenza la possibilità che quest’opera fosse presa sul serio e potesse giocarsi le sue carte, che forse non sono sempre vincenti ma che comunque hanno un qualche valore. A questo punto, poco importa che lo spettacolo fosse ben realizzato, che i solisti recitassero in modo spigliato, che i movimenti del coro fossero ben calcolati, che le numerose comparse agissero con precisione. Non a caso il momento in cui quest’opera riusciva a far veramente presa sullo spettatore e a trascinarlo in quel mondo che non c’è narrato dalla musica di Rossini, era il finale, quando il bailamme del palcoscenico spariva e lasciava il posto a scene dipinte all’antica, che rappresentavano una splendida sala, dove il lieto fine trovava il suo ambiente naturale.
Caldi ma non entusiastici gli applausi del pubblico, che non esauriva la sala, anzi lasciava ampi spazi vuoti: un fatto inedito per Il ROF, la cui responsabilità va alla programmazione di quest’anno, che ha puntato su opere poco note ed effettivamente non tra le più riuscite di Rossini.
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