L’incantatrice ricomincia ad esercitare le sue seduzioni

A Lione la prima francese di questa rara opera di Čajkovskij, con l’ottima direzione di Daniele Rustioni e la regia folle ma geniale di Andriy Zholdak

L’enchanteresse (Foto Stofleth)
L’enchanteresse (Foto Stofleth)
Recensione
classica
Opéra National de Lyon
L’enchanteresse
15 Marzo 2019 - 31 Marzo 2019

Era la prima rappresentazione in Francia de L’enchanteresse (in russoCharodéyka), un’opera quasi sconosciuta anche in Italia: eppure è un capolavoro della piena maturità di Čajkovskij e, nonostante la durata di oltre quattro ore con un solo intervallo e la dispersività di una trama ricca di divagazioni, non stanca mai l’ascoltatore, anche perché va in crescendo, con un terzo e quarto atto veramente splendidi, che non sfigurano al confronto con Evgenij Onegin La Dama di picche. Si può restare un po’ disorientati da alcune scene non essenziali all’azione e dai molti personaggi che compaiono e scompaiono prima ancora che si sia potuto capire bene chi siano e quale sia la loro funzione, ma questa struttura drammatica incoerente e sghemba è molto interessante e vi si possono riconoscere delle anticipazioni – senza dubbio involontarie, perché Čajkovskij certamente non aveva smanie di modernismo – del teatro moderno. Più difficile da digerire è lo stridente contrasto tra l’ambientazione nella Russia feudale e semibarbarica del Quattrocento e la musica che scava nella psicologia dei protagonisti con l’ipersensibilità propria di Čajkovskij, tipica della fine dell’Ottocento: ma questo problema è stato radicalmente risolto dal regista, come vedremo. Nonostante questi aspetti, che possono essere definiti dei difetti nell’ottica di una concezione estetica tradizionale, L’incantatrice ovvero La maliarda (a seconda che si scelga il titolo con cui viene rappresentata attualmente o quello che si legge nei vecchi testi italiani) ha un fascino indefinibile, e irresistibile, da vera incantatrice, come la sua protagonista. 

La realizzazione musicale che il festival dell’Opéra National de Lyon ha offerto di questa rarità di Čajkovskij è stata indiscutibilmente ottima, a cominciare dalla direzione di Daniele Rustioni, ammirevole per come ha tenuto saldamente in mano dall’inizio alla fine le redini di una partitura così complessa. E non ci riferiamo soltanto alla realizzazione impeccabile dei vari squarci orchestrali e in particolare della tempesta finale, di difficilissima esecuzione, come ha spiegato lo stesso direttore milanese nella sua intervista. Oltre a dare dimostrazione di virtuosismo collettivo, l’orchestra ha sorretto con discrezione e duttilità ma anche con incisività drammatica i lunghi recitativi e soprattutto è stata fondamentale nel dare un trascinante afflato ai grandi momenti solistici e d’insieme, infondendogli quella passionalità viscerale e totalizzante, ma mai però sgangheratamente incontrollata, che è propria dei grandi interpreti russi e di cui Rustioni è riuscito a impossessarsi quand’era agli esordi, in appena due anni di lavoro a San Pietroburgo.

Gli interpreti vocali venivano quasi tutti dalla Russia e dai vari stati nati dal dissolvimento dell’Urss, a dimostrazione che la gloriosa scuola russa continua a produrre ottimi cantanti in gran quantità, tanto che si è potuto mettere insieme una compagnia eccellente senza bisogno di ricorrere a nomi particolarmente noti. I quattro protagonisti sono venuti a capo senza alcun problema di ruoli molto impegnativi sotto tutti gli aspetti, a cominciare dalla lunghezza delle loro parti e dalla vocalità spesso tesa e drammatica per finire con la complessità e talvolta anche la contraddittorietà di personaggi difficili da afferrare e ancor più da realizzare compiutamente. Lei, Nastasja detta Kuma, l’incantatrice, è il personaggio più problematico, sia vocalmente, perché richiede dolcezza e delicatezza unite a robustezza, sia interpretativamente, perché è inafferrabile e sfuggente. Elena Guseva non vi ha visto un’incantatrice o una maliarda d’altri tempi ma una donna moderna e indipendente, che sa quel che vuole e non si sottomette ai desideri degli uomini, dalle cui attenzioni non richieste è più infastidita che lusingata.Ksenia Vyaznikova era assolutamente convincente come principessa Evpraksija Romanovna, una donna tradita, che non sarebbe certamente un personaggio nuovo, se non avesse qualcosa di abnorme, perché la sua reazione è di una determinazione e di una ferocia uniche, a cui l’interprete ha aggiunto una punta di isterismo. Suo marito, il traditore, innamorato dell’incantatrice, era Evez Abdulla, che non ha attenuato i comportamenti sensuali, violenti e dispotici di questo principe semibarbarico e semiasiatico ma li ha adattati a un “normale” alto-borghese dei nostri giorni. Il giovane principe Jurij, figlio di questa coppia infernale, era Migran Agadzhanyan, l’unico della compagnia – a quanto risulta – ad aver cantato il repertorio italiano in Italia: in effetti il timbro caldo e la baldanza negli acuti si confacevano perfettamente alla sua aria e al successivo duetto con l’incantatrice nel quarto atto, che sono due momenti culminanti dell’opera, in cui Čajkovskij ha speso le sue tipiche melodie appassionate e trascinanti. Intorno a questi quattro protagonisti ruota una miriade di personaggi, quindici in tutto, alcuni dei quali assumono per pochi minuti il rango di protagonisti. Erano tutti molto bravi, ma merita una citazione a parte Piotr Micinski, per la prova da lui offerta non solo e non tanto come cantante ma soprattutto come attore: infatti il personaggio da lui interpretato – Mamyrov, perfido consigliere del principe – non canta molto ma sta in scena anche quando non sarebbe previsto, poiché la regia ne fa una specie di deus ex machinao piuttosto di burattinaio che controlla e indirizza la vita degli altri.

E siamo giunti così all’aspetto più delicato e controverso di quest’allestimento, la regia di Andriy Zholdak, ucraino ma attivo soprattutto in Russia, attualmente una delle scene teatrali più interessanti. Inizialmente Zholdak (autore anche della complessa scenografia e delle bellissime luci) può sembrare totalmente folle. Quel che succede sul palcoscenico ha apparentemente poco o nulla a che vedere con il testo e con la musica e sembra smarrirsi in una miriade di episodi divaganti, che non solo distraggono dalla musica ma la maltrattano, per di più rendendo ancora oscura e incomprensibile una vicenda già contorta e complicata di per sé. Poi ci si rende conto che quest’affastellamento di stimoli, talvolta urticanti, molto urticanti, che dal palcoscenico giungono a getto continuo allo spettatore, lo disorientano e gli impediscono di trovare un comodo ubi consistam, non sono affatto immotivati e insensati ma hanno lo scopo di costringere a porsi continuamente delle domande. È una regia scomoda, che non crede affatto di dover offrire allo spettatore un’interpretazione preconfezionata e presentata in una cornice di buon gusto, ma gli presenta una serie di chiavi di lettura, molte delle quali aprono delle porte su aspetti sfuggenti o anche impensabili di quest’opera, altre invece non aprono nessuna porta: ma questo può ovviamente variare da spettatore a spettatore, perché lo spazio lasciato all’interpretazione soggettiva è molto ampio. Quel che è chiaro è il ruolo di burattinaio del mefistofelico Mamyrov, che controlla tutto e tutti, mettendo telecamere perfino negli occhi di un enorme Crocifisso (chiara allusione al controllo sociale esercitato dalla chiesa) e usando altre diavolerie elettroniche. Il fatto che indossi spesso occhiali 3D lascia pensare che forse quella cui assistiamo è una realtà virtuale o almeno una realtà non tanto reale, tanto che viene continuamente attraversata da personaggi che non dovrebbero essere sul palcoscenico in quel momento e risultano invisibili agli altri. Scene di sesso di vario tipo – etero, omo, sadomaso – sparse qua e là servono a stabilire la sensualità che permea l’opera (e che nel 1887 doveva necessariamente restare tra le righe) e guida le azioni dei protagonisti fino all’atroce catastrofe, a cui la natura stessa reagisce scatenando la tempesta finale. Ma è impossibile raccontare tutte le idee di questa regia debordante, eccessiva, contraddittoria, incomprensibile, geniale, che ha liberato L’Incantatrice da ogni granello di polvere ottocentesca, trasformandola in un’opera ancora capace di stimolare e porre domande all’ascoltatore del 2019.   

 

 

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