Liberazione emotiva

Una sera con Marc Ribot

Recensione
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Ovvio. Uno a un concerto si porta sempre dietro il suo stato d'animo. Il suo umore. Il suo spirito. La sua fidanzata, o la sua amica. I suoi pensieri bui, ossessionati dal disamore. La sua stanchezza, la sua malinconia, oppure la sua energia sorridente, disponibile, sociale. Non sempre il tempo di un concerto ci basta a dimenticare come stiamo, per entrare in relazione pura con la musica e con i suoi musicisti. Però. Però, a volte, la musica ci ripiglia con il suo potere taumaturgico. Ci cura. Chi suona, a dieci o venti metri da noi, ci parla di noi.
Ascoltando, o meglio, lasciandomi guarire da Marc Ribot e dalla sua chitarra l'altra sera a Torino, in un piccolo torrido teatrino chiamato Vittoria (un programma!), ospitato da Musica 90 e Folk Club, prima di capire cosa la sua chitarra amplificata stesse veramente suonando, ho sentito che quel discorso di libertà del comporre, di vastità dell'accogliere musiche, di ecletticità resiliente del percorrere tempi e mondi di svariate musiche (il jazz, il contemporaneo, il blues, il latin...) entrava nella mia mente abbattuta e girava come una chiave, come una emozione chiave, come uno schiudere di emozioni finalmente risanate, leggere e soprattutto libere. La bellezza prodigiosa dell'energia di Chad Taylor alla batteria, la vecchiezza mitologica e sorniona di Henry Grimes al contrabbasso parlavano poi di cosa significhi essere in ascolto e in armonia, nella musica e anche fuori, dopo un concerto. Un discorso di condivisione, per cominciare, con frecciate colorate e infinite di fiducia nelle traiettorie possibili della felicità.


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