L’Estate di Mannheim è nel giardino
Il Nationaltheater chiude la stagione con produzioni di teatro musicale: “Don Giovanni” di Mozart e la novità “L’étranger” di Cecilia Arditto Delsoglio
Fare festa in tempi di crisi? Sì, perché proprio nei tempi di crisi i momenti rituali sono fondamentali perché inclusivi e partecipativi per loro natura. Ed il festival, inteso come forma rituale collettiva, aiuta a superare i conflitti, i limiti e i problemi della vita quotidiana. Jan Dvorak spiega così l’edizione annuale di Mannheimer Sommer che, ad anni alterni con i Schillertage, chiude in festa (o, piuttosto, in festival) la stagione del Nationaltheater di Mannheim. Se nel 2022 i diversi eventi erano, almeno blandamente, legati all’emergenza climatica, in quella appena conclusa è davvero difficile identificare un tema preciso fra le sculture sonore di Nik Nowak, “audiowalks” di Kommando Himmelfahrt, un ballo in maschera in stile veneziano (sic!) oltre a concerti e performance musicali fra Mannheim, dove resta inaccessibile per lavori l’edificio centrale di Goetheplatz, e Schwetzingen con le architetture settecentesche e i lussureggianti giardini. Esempio più antico di foucaultiane eterotopie, proprio il giardino è scelto a simbolo, anche grafico, che meglio rappresenta quest’Estate di Mannheim un po’ in tono minore rispetto a più ricche edizioni del passato.
Considerazioni filosofiche a parte, anche nel 2024 la rassegna conferma, da un lato, la vocazione originaria di rassegna mozartiana (anche se da tempo “Mozartsommer” è diventata semplicemente “Sommer”) e, dall’altro, l’attenzione alla creazione contemporanea. Nel primo caso, è Don Giovanni il titolo scelto, che prosegue la trilogia dapontiana inaugurata già nella passata stagione da Così fan tutte. Aggiunge davvero poco alla conoscenza del capolavoro mozartiano il nuovo allestimento curato da Alexander Mørk-Eidem per il piccolo palcoscenico del settecentesco Schlosstheater di Schwetzingen e in collaborazione con il Teatro Nazionale di Praga, che riproporrà questo allestimento dal prossimo novembre nel Teatro degli Stati, dove l’opera vide la luce nel 1787. Ripropone lo schema piuttosto consueto del teatro nel teatro, questo spettacolo, realizzato con mezzi spartani ma non privo di una certa giocosa vitalità e forse un po’ troppo a spese del dramma, che pure esiste. Lo scenografo Christian Friedländer si limita a costruire una fuga di sipari, che termina in un fondale con scorcio della sala del teatro praghese, e vari elementi scenografici mostrati nel retro. I costumi, non bellissimi, di Jenny Ljungberg e Moa Möller restano nell’alveo della tradizione iconografica dell’opera con pochissimi slanci creativi (e non proprio memorabili). Dal canto suo, la light designer Ellen Ruge lascia un segno personale davvero solo nella scena del banchetto, risolta in un profluvio di fumi e suggestive figure in controluce.
Anche il direttore Jānis Liepiņš sembra più incline alla commedia a giudicare dai tempi speditissimi imposti alla Nationaltheater-Orchester, in versione extralight (la buca è davvero piccola) e piuttosto distratta. Gli ensemble sono imprecisi e sbilenchi (il finale primo particolarmente) così come la scena del banchetto manca della gravità che le si addice. Nota di demerito: il taglio del sestetto finale inspiegabile e ingiustificabile, poiché l’impatto sulla durata complessiva è trascurabilissimo ma quello sulla drammaturgia è invece pesante, ridotto ai tre versi finali del libretto di Da Ponte. Nell’insieme il cast vocale funziona, nonostante la debolezza di qualche voce e sulla scarsa cura della dizione per i più. Poche sorprese riserva il protagonista di Nikola Diskić, simpatico e sfrontato come certa tradizione impone, mentre qualche finezza in più si coglie nel Leporello di Marcel Brunner. L’Elvira di Michaela Zajmi è solida come una roccia nell’emissione vocale ma tagliata con l’accetta nell’interpretazione, mentre la Donn’Anna di Seunghee Kho non va oltre la diligente esecuzione della linea di canto (ma il personaggio è altra cosa), e al suo fianco il Don Ottavio di Rafael Helbig-Kostka è più che suo degno compagno. Masetto e Zerlina sono Eric Ander e Nataliia Shumska, due giovani davvero, ma lei ostenta già una personalità decisa anche se sconta una certa inesperienza soprattutto nel calibrare lo sforzo richiesto per arrivare alla fine non in affanno, e il Commendatore è Sung Ha piuttosto invisibile nel duello iniziale e più presente nella scena del banchetto. Pur se con qualche inciampo, il Coro del Nationaltheater onora degnamente l’impegno. Pochi i vuoti in sala, grande divertimento, e ripresa già annunciata a inizio stagione per numerose recite.
Di tono molto diverso il secondo titolo operistico presentato nello Studio Werkhaus, spazio versatile e multiscopo a solo qualche decina di metri dal grande cantiere di Goetheplatz. Si tratta un’opera da camera, scelta attraverso un concorso di composizione lanciato nel 2021 dallo stesso Nationaltheater. Il soggetto proviene dal romanzo L’étranger di Albert Camus del 1942, oggi un grande classico, e viene trattato in maniera piuttosto originale dalla compositrice argentina Cecilia Arditto Delsoglio co-autrice del libretto con Annette Müller ed entrambe co-registe dello spettacolo. Nello spazio unico condiviso fra i quattro interpreti vocali, gli strumentisti e il pubblico, il filo narrativo è affidato agli estratti del testo originale in traduzione tedesca proiettati sulla parete di fondo, mentre la musica svolge un ruolo quasi di commento a basso contenuto emotivo degli eventi. Il lessico musicale coinvolge in primo luogo l’espressione vocale, che tuttavia viene trattata alla stregua degli interventi dei singoli strumenti e dei rumori prodotti da oggetti evocati nella vicenda dell’io narrante Meursault e del suo subire la vita (epigrammatico il celebre incipit: “Aujourd'hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas.”) ma anche la morte, alla quale lo condanna un giudice per l’omicidio quasi casuale di un giovane arabo. Il piccolo ensemble strumentale con archi, fiati e percussioni metalliche, integra così i suoni prodotti da due ventilatori, da un secchio d’acqua (nel quale si tuffa la tromba), da barre di metallo, da bicchieri di vetro e tazzine da caffè e anche dalla fastidiosa grima delle posate grattate sulla porcellana dei piatti. Nella performance scenica – all’interno dello spazio circoscritto fra le due ali di leggii laterali, la tribuna del pubblico e la parete di fondo destinata alle proiezioni – contribuiscono i quattro cantanti, indicati in locandina non con ruoli precisi ma attraverso i rispettivi registri vocali, e diversi strumentisti (il trombettista è la vittima di Meursault) in eguale misura costruendo i tasselli sonori di natura piuttosto statica e ripetitiva del mosaico che definisce delle atmosfere prima ancora che porsi come motore di una narrazione.
La spigolosa e introversa espressione sonora di Cecilia Arditto Delsoglio trova nel direttore Pierre Alain Monot un interprete sensibile e di precisione millimetrica nella sollecitazione alla manciata di musicisti della Nationatheater-Orchester un intero spettro espressivo che va ben al di là del dominio tecnico di ogni strumento e si manifesta in gesti vocali, sussurri, rumori catalizzatori di inquietudini. A loro si assommano le quattro espressive voci di Joachim Goltz, uno straniato Merseult, di Patrick Zielke, di Slavica Božić e di Amelia Scicolone, che è Marie dalla risata leggera che cela a malapena il nero abisso della disperazione.
Realizzazione impeccabile festeggiata con grande calore dallo sparuto pubblico presente.
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