Les Contes d’Hoffmann convince a Napoli

Al Teatro di San Carlo il capolavoro di Jacques Offenbach in una coproduzione con Opéra de Montecarlo

Les Contes d’Hoffmann  - Napoli
Foto di F. Squeglia
Recensione
classica
Napoli, Teatro di San Carlo
Les Contes d’Hoffmann
17 Marzo 2019 - 24 Marzo 2019

Torna al Teatro di San Carlo di Napoli Les Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, questa volta nella versione in tre atti, prologo ed epilogo, seppur di difficile ricostruzione filologica, forse la più somigliante al lavoro di Offenbach-Barbier.

Il capolavoro di Offenbach, che a Napoli negli ultimi decenni è stato un titolo mai peregrino – questo il suo terzo revival dopo il debutto nel 1960, poi 1997, per la celebrazione dei duecento anni dalla nascita – è una coproduzione con Opéra de Montecarlo, in una raffinatissima regia di Jean-Louis Grinda e con la direzione dell’israeliano Pinchas Steinberg. Gesto assolutamente sobrio, ma sempre dispensato con esatto controllo sia in buca che alle voci, il direttore domina Les Contes con perizia intelligente e sonorità caratterizzante.

L'interpretazione di Grinda, insieme ai costumi di David Belugou, disegnano una mappa di interni, dalla taverna pregnante di significato allo studio di fisica, alla galleria a Venezia, entro la quale il suono dell'orchestra affiora, lievita, ci commuove e diverte. Timbro caldo, con rintocchi dell’arpa, fino a squarci di malinconiche atmosfere nella barcarola "Belle nuit, ô nuit d'amour” che apre l’atto Veneziano. Quasi sempre applausi a scena aperta. Emozionanti i momenti con coro massiccio ben diretto da Gea Garatti Ansini, anche se non sempre puntuale su alcuni attacchi, e gli enigmatici sipari finali degli atti, che Offenbach cesella, intrecciati con le voci come pagine riflessive dell'individuo, dell’arte e dell’impossibilità di amare.    

Les Contes d’Hoffmann  - Napoli
Foto di F. Squeglia

Nicklausse (tiene bene tutta l’opera Annalisa Stroppa) si trova nella locanda quando Hoffmann si raccoglie in cupi pensieri, interpretato con totale immedesimazione da un fenomenale John Osborn, pragmatico più che malinconico in un primo atto spedito, come si richiede.

Anche la bambola meccanica Olympia – Maria Grazia Schiavo – ideale nello spirito dell’opera fantastica, ma soprattutto di intonazione e fraseggio cullanti come nella sua canzone, rappresenta per il poeta ma anche per se stessa il dramma d'una esistenza senza amore. Alex Esposito (Lindorf, Coppélius, Dr. Miracle, Dapertutto), canta bene subito severo e ben deciso a raddrizzare i sogni del giovane Hoffmann. Così come Orlando Polidoro che interpreta Andrès, Cochenille, Frantz e Pittichinaccio e tutta la numerosa squadra Nino Machaidze (Antonia) – solo poco chiara nella pronuncia –, Josè Maria Lo Monaco (Giulietta), Michela Antenucci (Stella), Fabio Zagarella (Hermann/Schlémil), Pasquale Scircoli (Nathanaël), Enrico Di Geronimo (Luther), Federica Giansanti (La mère d'Antonia). 

Sparigliati i problemi oggettivi della ripetitività del dramma lungo i cinque atti, la drammaturgia appunto non sorprende ma sostanzialmente funziona. La regia è per tutto convenzionale, con colori e chiaroscuri dominanti, l'atmosfera sempre sinistra e paradossale, in particolare nella scena con l’inventore Spalanzani – Enrico Cossutta – ma ovunque ampi spazi dai quali far entrare occasionalmente la luce, i colori di Laurent Castaingt, e oggetti, perfino nella scena della casa del liutaio di Baviera (Roberto Abbondanza).

Il senso di malinconia viene valicato solo nell’epilogo, nella locanda, che così risulta anche il più lento, concludendo mestamente. Con molti applausi e interesse, il San Carlo, pieno in questa seconda replica, ha accolto queste tre ore di un passato eroico, fortemente romantico e anticamente malinconico. 

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