L’Ensemble Modern ricomincia da Lucia Ronchetti

Un ritratto della compositrice romana traverso tre composizioni nel concerto del gruppo francofortese nella riaperta Oper Frankfurt sotto strette misure anticontagio

Porträt Lucia Ronchetti
Porträt Lucia Ronchetti
Recensione
classica
Frankfurt am Main, Opernhaus
Happy New Ears – Porträt Lucia Ronchetti
04 Giugno 2020

Dunque, si ricomincia. Rientrando all’Opernhaus di Francoforte dopo quasi tre mesi di chiusura, l’impressione è quella di ritrovarsi in una di quelle distopie da futuro prossimo: personale di sala ridotto al minino con visiere e guanti in lattice, passaggi obbligati, rigoroso rispetto delle distanze, schermi in plexiglas ovunque sulla scena. Silenzio. Ma questo è il presente al quale ci obbliga e ci obbligherà il nemico invisibile e insidioso finché non si troverà modo di farlo sparire dalle nostre vite.

C’è un senso di necessità ma anche di ironia, se non fosse pura coincidenza, nell’apertura decisa per il primo concerto davanti al pubblico fortemente voluto dall’Ensemble Modern, che non ha mai smesso le sue multiformi attività musicali diffuse in streaming anche nei mesi di lockdown. Si riprende da dove il filo si era interrotto, cioè da quel “Happy New Ears” dedicato a Lucia Ronchetti in occasione della prevista prima assoluta di Inferno cancellata nello scorso aprile all’Oper Frankfurt e rinviata a giugno del 2021. La necessità è dettata dagli stretti vincoli imposti dalla contingenza sanitaria attuale, rispetto ai quali le miniature musicali di Lucia Ronchetti si pongono come alternativa ideale per la loro natura intrinsecamente teatrale. L’ironia, invece, non è solo nelle parole del general manager dell’Ensemble Modern, Christian Fausch, che nel suo breve saluto introduttivo si rallegra del “tutto esaurito” da tempi di Covid-19, quando in sala ci sono solo 100 spettatori, il massimo consentito per ora, su circa 1500 posti disponibili. È soprattutto nel pezzo che apre la serata, cioè Cartilago auris, magna et irregulariter formata, “action concert piece” del 2019 di evidente matrice medicale. L’orecchio in questione è quello di Ludwig van Beethoven, sezionato e analizzato l’indomani della morte del compositore, nella descrizione in latino del referto dei medici Johann Wagner e Carl von Rokitansky artefici dell’autopsia (anche) dell’apparato auricolare nel tentativo di eviscerare il mistero della trasmissione del linguaggio musicale e della percezione. Nella trasfigurazione musicale di Lucia Ronchetti, quel referto si trasforma in un’anatomopatologia del suono di un pianoforte, metafora dell’orecchio beethoveniano, ad opera di due percussionisti (Rainer Römer e David Haller) in camice bianco e mascherina che scarnificano e decompongono i suoni intervenendo direttamente sulla meccanica dello strumento con una molteplicità di attrezzi, mentre il pianista (Ueli Wiget) afferma dalla tastiera la rituale continuità dell’atto concertistico con accordi ostinati e temi di flebile ispirazione beethoveniana.

Il silenzio è la condizione naturale del lavoro del compositore: lo afferma Lucia Ronchetti nel dialogo a distanza con Konrad Kuhn in sala. È fatta di silenzio la linea che lega Cartilago auris, l’orecchio sordo del patologico silenzio imposto a Beethoven, al pezzo successivo Le palais du silence, germogliato da una composizione mai nata del Claude Debussy più tardo. È un silenzio vivente e soprattutto pieno di colori, preso a prestito dalla ricca tavolozza debussyana, quello che la compositrice ha creato nella sua “drammaturgia” composta nel 2013 per l’Ensemble Intercontemporain. Autentico esercizio mimetico – non insolito nel catalogo di Lucia Ronchetti, la cui musica spesso si nutre di riflessi sullo specchio del passato – che tesse in un tessuto organico ed espressivo una trama di frammenti debussyani “Le vent dans la plaine”, “Des pas sur la neige”, “La cathédrale engloutie”, “Feuilles mortes” e “Jardins sous la pluie” per un ensemble strumenti classici e fonti sonore eteroclite. Nell’esecuzione dell’Ensemble Modern diretta da Peter Tilling, la riduzione a 12 strumentisti rispetto ai 18 previsti nell’originale (causa regole di distanziamento) non intacca la qualità dell’esecuzione musicale. A soffrire è piuttosto quella performativa, affidata anche in questo pezzo soprattutto agli interventi di due percussionisti sul corpo di un pianoforte, che all’Oper Frankfurt non troneggia protagonisticamente al centro della scena ma è costretto sul lato, avvolto in pagine di plexiglas.

Dopo la ripetizione “pedagogica” del Palais, chiude il concerto la vivacità “tamburinizzante” e molto sardonica di Rosso pompeiano, altro “riflesso” ronchettiano su ‘A rumba d’ ‘e scugnizze composto nel 2010 per l’Ensemble Recherche. Nella lente deformante della compositrice la classica canzone napoletana diventa quasi uno scherzo alla Šostakovič ma con la solarità dei colori mediterranei (non solo il rosso delle pareti di Pompei e Ercolano del titolo) e lo sfacciato e vitale caos mercantile dei vicoli partenopei riprodotto con il puntiglio di una natura morta acustica fra chiodi, cespi di scarola riccia (bella amara) e finocchietto, trecce d’aglio, trappole per topi e grattugie, battipanni e santini, pizza con le alici, peperoni e olive. Alla pittoresca miniatura dà vita la spiritata esecuzione del clarinetto di Jaan Bossier, della viola di Megumi Kasakawa, del violoncello di Michael Maria Kasper, del pianoforte di Ueli Wiget e delle percussioni di Rumi Ogawa, che chiude la serata fra gli applausi convinti degli spettatori in sala.

 

 

 

 

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