L’Empio punito si aggira per l’Italia
Una coincidenza porta l’opera di Alessandro Melani a Pisa a pochi giorni di distanza dalle rappresentazioni di Roma, dopo 350 anni
Che L’empio punito di Alessandro Melani fosse uno dei capolavori dell’opera barocca lo si era sempre detto, ma non se ne era potuta avere la dimostrazione concreta, non in Italia almeno, dove in epoca moderna era stata rappresentata soltanto in forma molto frammentaria. Ora, per rifarsi del lungo digiuno, se ne sono viste due edizioni profondamente diverse a una settimana di distanza, una a Roma e un’altra a Pisa (quest’ultima sarà ripresa a Pistoia, città natale del compositore).
Tale coincidenza non è stata affatto inutile, perché un raffronto tra le due edizioni ha permesso di capire meglio questo capolavoro sconosciuto. A essere interessante è il confronto non tanto tra le esecuzioni quanto tra le due diverse edizioni del testo, che è pervenuto in un unico manoscritto conservato alla Biblioteca Vaticana e di cui non esiste un’edizione a stampa e tanto meno un’edizione critica (la sta approntando ora Luca Della Libera), cosicché per ogni rappresentazione gli interpreti se ne preparano una versione a proprio uso e consumo.
Recensendo le rappresentazioni romane esprimevamo il dubbio che i tanti tagli avessero alterato l’essenza stessa dell’opera, pensando soprattutto (ma non solo) al momento in cui il protagonista viene trascinato all’inferno dalla statua di pietra: era una scena molto potente e drammatica e anche straordinariamente moderna, ma presentava salti logici e musicali che legittimavano più di un dubbio. Infatti, ascoltata a Pisa in una veste molto più fedele a Melani, quella scena si rivelava totalmente diversa, meno concentrata e meno drammatica: non una delusione, ma la constatazione che nel 1669 non era ancora concepibile la scena rapida, demoniaca, violenta ascoltata a Roma.
La stessa edizione pisana ha però tagliato in questa scena quasi tutti gli interventi comici di Bibi (il Leporello della situazione), cosicché si è restati col desiderio di sentire come funziona questa sovrapposizione di tragico e di comico, che potrebbe far pensare a Mozart. A Pisa comunque si sono fatti solo piccoli tagli qua e là, ma non si sono abolite intere scene come a Roma, tanto che L’empio punito questa volta è durato tre ore rispetto alle due ore e un quarto di Roma. In conclusione si può dire che ora se ne è avuta un’esecuzione che ci ha restituito l’opera in modo sostanzialmente fedele all’originale.
Mentre a Roma la parte del protagonista (che qui si chiama Acrimante) era affidata a un baritono, a Pisa si è tornati al sopranista, la soluzione oggi più vicina al castrato previsto da Melani: ci si poteva immaginare un effetto paradossale, un Don Giovanni con una vocina effemminata, invece Raffaele Pe l’ha interpretato con grande fisicità e con voce piena e direi anche robusta, facendone un seduttore credibilissimo e soprattutto un personaggio un po’ dark, abitato da un suo demone, che lo porta a violare una dopo l’altra le regole sociali e morali. Splendida anche Raffaella Milanesi, che esprimeva gli “affetti” nobili e tragici di Atamira (una sorta di Donna Anna) con grande intensità e compostezza.
Personalmente ho trovato invece meno convincente Roberta Invernizzi, preziosa interprete del canto barocco, ma che in questa sua interpretazione di Ipomene (Donna Elvira, se vogliamo continuare nel gioco del raffronto con Mozart, che va però preso con le molle) era un po’ leziosa sia nel canto che nella recitazione. Forse era una scelta della regia o del direttore d’orchestra, che hanno anche attenuato molto la comicità della coppia formata da Bibi (il basso-baritono Giorgio Celenza) e Delfa (il tenore Alberto Allegrezza). Lei era vestita come una ex giovane con velleità erotiche, strizzata in un abitino che una volta doveva essere sexy: ma la parte è scritta per un tenore, espediente che nel Seicento era regolarmente usato per donne anziane, che avevano ormai perso ogni femminilità, quindi deve essere un personaggio caricaturale, farsesco. Lui era vestito un po’ come Charlot, con tanto di bombetta, però Bibi non è l’omino triste di Chaplin, ma un servo buffo, che fu interpretato da un nano nel 1669, quando i nani erano messi alla berlina per scatenare le risate del pubblico: ora nessuno pensa di giungere a tale crudeltà, ma le smancerie d’amore tra quei due personaggi devono far ridere a crepapelle, non sorridere appena, altrimenti salta l’equilibrio dell’alternanza tra comico e tragico.
Gli altri interpreti erano sei giovani selezionati attraverso audizioni. Ottimo Federico Fiorio (Cloridoro), sopranista dalla voce pura, limpida, dolce. Molto bene anche Piersilvio De Santis, che si è accollato il Demonio e altri ruoli. Lorenzo Barbieri ha affrontato con concentrazione un personaggio tra i più impegnativi, il re Atrace, che avrebbe però voluto un interprete più maturo e completo. Adeguati alle loro parti Benedetta Gaggioli, Shaked Evron e Carlos Negrin Lopez.
All’attenta direzione di Carlo Ipata, sul podio dei suoi Auser Musici, non si poteva chiedere di meglio, se non in qualche momento una maggior incisività, che valorizzasse di più la straordinaria teatralità di quest’opera, anche nei recitativi.
La regia era firmata da Jacopo Spirei, le scene e i costumi da Mauro Tinti. Sul fondo si stagliavano tre grandi rettangoli inscritti l’uno nell’altro, dai colori molto accesi, quasi fosforescenti, mentre sul palcoscenico comparivano di volta in volta alcuni elementi bidimensionali: altissime sagome di cavalli neri, un grande ventaglio che rappresentava il palazzo di Ipomene, alcuni simboli del diavolo e della morte, poco altro. Lo stile minimalista e l’eleganza di questa scenografia soddisfacevano l’occhio, ma avevano poco o nulla a che vedere con il teatro barocco, che certamente può fare a meno di stucchi dorati, velluti e pennacchi ma altrettanto certamente esige un mondo non lineare ma irrazionale, molteplice, ingannevole, labirintico.
Da parte sua il regista, che in passato ha dato prove molto più convincenti, questa volta si è limitato a poche e timide idee, lasciando spesso i cantanti a loro stessi, come sembrerebbe dalla loro gestualità di routine.
Nonostante qualche limite, il Teatro Verdi ha offerto al suo pubblico un’edizione di classe di un capolavoro rarissimo, che sarebbe stata degna di qualsiasi grande teatro. Ma la cosa più bella era la sala affollata da spettatori che forse all’inizio erano un po’ spaesati ma che poi hanno mostrato con grandi applausi di aver capito e apprezzato quest’opera lontana dalle loro abitudini.
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