Le riuscite “Baruffe” che parlano la lingua della contemporaneità

Un successo per la prima assoluta del nuovo “teatro di musica” di Giorgio Battistelli dalla commedia di Carlo Goldoni allestito da Damiano Michieletto al Teatro La Fenice

"Le baruffe" (foto Michele Crosera)
"Le baruffe" (foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice
Le baruffe
22 Febbraio 2022 - 04 Marzo 2022

Dopo una pausa insolitamente lunga seguita al Fidelio inaugurale, al Teatro La Fenice torna l’opera. E torna con una novità già annunciata per la scorsa stagione per celebrare i 60 anni della casa editrice veneziana Marsilio e rinviata a questa stagione a causa della chiusura dei teatri per la pandemia. Doveva essere di Carlo Goldoni il soggetto come testimonianza dell’impegno ormai quasi trentennale di Marsilio nel recupero in edizione critica della ricca produzione letteraria del commediografo veneziano. E dovevano essere il compositore Giorgio Battistelli e il regista Damiano Michieletto gli artefici di questa operazione, entrambi molto legati al teatro lirico veneziano. I titoli in ballo erano due: La bottega del caffè e Le baruffe chiozzotte. La scelta è caduta su quest’ultimo titolo, uno dei più popolari nel fertile catalogo dei lavori teatrali di Goldoni, andata in scena nel veneziano Teatro di San Luca nel gennaio 1762, solo qualche mese prima che il suo autore lasciasse la città per trasferirsi definitivamente a Parigi.

Queste nuove Baruffe arrivano al Teatro La Fenice dopo oltre due secoli da quel debutto e diverse trasposizioni musicali, dapprima in forma di balletto da Alfonso Santi nel 1797, di pezzo sinfonico da Leone Sinigaglia nel 1905, e ovviamente operistiche a partire dalla commedia musicale in due parti di Tommaso Benvenuti per il Teatro Pagliano di Firenze negli ultimi giorni del 1895, seguito da Franco Leoni per il Teatro alla Scala nel 1920 per arrivare al trittico goldoniano (con La bottega del caffè e Sior Todaro brontolon) di Gian Francesco Malipiero andato in scena a Darmstadt nel 1926. Il nuovo “teatro di musica” di Giorgio Battistelli prosegue oggi quella tradizione, ma lo fa rompendo nettamente con anacronistici settecentismi e venezianismi di maniera, che di quei lavori erano la linfa ispiratrice.

I personaggi di queste Baruffe sono gli stessi della commedia di Goldoni, cioè un piccolo gruppo di uomini e donne di Chioggia con le due coppie mature di Padron Toni e la moglie Pasqua e Padron Fortunato e la moglie Libera, e i loro congiunti più giovani, cioè Lucietta e Beppo fratelli di Toni, e Orsetta e Checca sorelle di Libera. L’innesco dei numerosi conflitti è una fetta di zucca barucca arrostita, che il battelliere Toffolo offre a un gruppo di donne. Fra queste c’è anche Lucietta, promessa al pescatore Titta-Nane. Le chiacchiere e le schermaglie amorose degenerano rapidamente in ripetuti scontri, che solo l’impegno ostinato di Isidoro, coadiutore del cancelliere criminale, riuscirà a riportare pace nelle coppie scoppiate, che si ricomporranno nell’immancabile lieto fine.

"Le baruffe" (foto Michele Crosera)
"Le baruffe" (foto Michele Crosera)

Il libretto approntato dallo stesso compositore con Damiano Michieletto rispetta la trama della commedia originale, se si escludono inevitabili tagli che riducono i tre atti dell’originale in tre quadri, ma soprattutto la peculiare lingua di quella comunità. Nuova è la presenza del coro, che amplifica la dimensione corale di un testo comunque privo di veri protagonisti. Nuovo è il breve preludio, nel quale il coro canta un elenco di parole (pesci, insulti, venti della laguna) che tornano nella vicenda per creare un “sound landscape” dalle coordinate geografiche e antropologiche molto precise, e il beffardo finale danzante (“Andémo, che baleremo quattro furlane” sollecita Isidoro) dal carattere “fellinianamente” circense. Significativa è anche l’omissione dal titolo Le baruffe di ogni riferimento a Chioggia, funzionale a uno sguardo radicalmente diverso sulle vicende della trama ma soprattutto sui colori goldoniani. “Bonarietà, semplicità, arguzia, umorismo”, qualità che uno spettatore illustre come Goethe aveva annotato nel suo diario italiano dopo aver assistito a una rappresentazione della commedia, emergono solo in parte nella partitura di Battistelli. Dominano, invece, un colore scuro nell’orchestrazione e una tensione crescente nelle nervosissime percussioni, anche se non mancano passaggi lirici e autentiche arie chiuse orchestrate con raffinate e originali scelte timbriche fra sonorità liquide di arpa e metallofoni e borbottii dei legni come accompagnamento alla peculiare prosodia della parlata chioggiotta. Come in un rituale, le scene sono attraversate da una tensione crescente specialmente nei ritmi obliqui delle percussioni che culmina nelle ripetute esplosioni di violenza delle baruffe amplificate dalla partecipazione del coro. A queste seguono oasi liriche di pace solo apparente, attraversate invece da sotterranee tensioni foniche, quasi come se le avversità di una Natura ostile penetrasse le vite di quella comunità in conflitto permanente. Va dato atto del grande lavoro di concertazione del direttore Enrico Calesso sull’Orchestra del Teatro La Fenice, che restituisce al meglio i densi colori orchestrali dando tuttavia il necessario rilievo al fraseggio degli interpreti vocali e alla chiarezza della parola.

Altrettanto lontano da una maniera convenzionale e leziosa di mettere in scena Goldoni è l’allestimento di Damiano Michieletto. I costumi di Carla Teti sono austeri nelle linee e nei colori, e il palcoscenico progettato da Paolo Fantin è vuoto, fatta eccezione per tre grandi ventilatori in alto, che accompagnano con il movimento delle pale le tensioni crescenti come il vento prima di una tempesta. Il disegno dei diversi ambienti lo fanno mobilissime pareti di legno, le cui assi divelte si fanno armi al culmine delle baruffe. Come relitti dopo un naufragio, quelle pareti pendono sospese nel finale poco festoso che sembra solo preludere al prossimo inevitabile scontro. L’azione e la tensione sono costruite quasi completamente sui corpi e sui movimenti dei 14 bravissimi solisti (ma le donne – Silvia Frigato, Francesca Lombardi Mazzulli e Francesca Sorteni in testa – hanno una marcia in più) e del Coro del Teatro La Fenice, per la prima volta preparato da Alfonso Caiani, per i quali Thomas Wilhelm ha sviluppato coinvolgenti movimenti coreografici.

Il tutto esaurito per le cinque recite in programma e il calore degli applausi alla prima destinati a tutti i bravi interpreti, al team registico e al compositore testimoniano un grande successo per il Teatro La Fenice. Un successo tutt’altro che scontato quando a Goldoni si tolgono cipria e belletto e si dà un senso al suo storico ruolo di riformatore di un teatro incrostato di vezzi e ormai incapace di parlare la lingua della contemporaneità.

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