Le quattro stagioni di Dorilla
Dopo l’Orlando furioso, il direttore Diego Fasolis e il regista Fabio Ceresa presentano la Dorilla in Tempe al Teatro Malibran di Venezia
Vivaldi, anno secondo. Dopo l’Orlando furioso, arriva al Teatro Malibran di Venezia il secondo titolo del ciclo vivaldiano nella stagione della Fenice, la Dorilla in Tempe. Torna lo stesso team creativo per questo allestimento, anche in questo caso firmato dal regista Fabio Ceresa, che si scosta di poco dalla formula dell’Orlando furioso. Simile è lo spiccato gusto decorativo, che per quest’opera si rifà al luminoso classicismo tiepolesco nella combinazione del bianchissimo scalone a due rampe simmetriche disegnato da Massimo Checchetto e dei coloratissimi costumi arcadico-settecenteschi di Giuseppe Palella. Più evidente è un certo spirito giocoso, che gioca con la trama di questo melodramma eroico-pastorale che sembra fare il verso alla mitologia maggiore. Ci sono mostri prodotti dalle colpe dei padri da placare con sacrifici filiali, dei dell’Olimpo incapricciati di bellezze terrestri e le solite complesse catene di amanti non riamati che si sciolgono in un posticcio lieto fine nel segno dell’amore trionfante. Nella Dorilla il mostro è il serpente Pitone che il re della tessalica Tempe, Admeto, vorrebbe placare sacrificando la figlia Dorilla senza troppe esitazioni, se non fosse che di lei si innamora perdutamente Apollo (fresco di perdita di Giacinto, secondo lo spiritoso inserto registico) sotto le mentite spoglie del pastore Nomio. Il dio uccide il mostro e pretende la mano di Dorilla, che però è già promessa all’amato Elmiro, a sua volta oggetto delle attenzioni dalla ninfa Eudamia, per la quale sospira senza speranza il pastore Filindo. Dorilla e Elmiro fuggono ma vengono ripresi e puniti se non fosse che Apollo, reprimendo un furore divino (che sfoga sul povero Marsia scuoiato vivo, in un secondo inserto di regia), svela la sua identità e benedice le nozze dei due. Ispirandosi al coro di apertura “Dell’aura al sussurrar” sul tema del celebre concerto vivaldiano intitolato alla Primavera, la rappresentazione segue la successione delle stagioni, occasione sfruttata a fini più che altro decorativi con innesti botanici in tema nella scenografia e nel sontuoso costume di Dorilla, sorta di ninfa delle quattro stagioni.
L’idea delle scorrere delle stagioni è ripreso anche musicalmente, attraverso brevi inserti tratti dagli altri concerti stagionali del Cimento (estate, autunno e inverno) eseguiti ad apertura di atto per aggiungere colore musicale, che non manca certo nella direzione di Diego Fasolis, infedeltà fedelissime all’estetica barocca, in una partitura di cui, grazie al fondo Foa, sopravvive solo la versione “pasticciata” del 1736 con prestiti da Hasse, Sarro, Leo e Giacomelli scelti dallo stesso Vivaldi fra gli hit dell’epoca (mentre gli originali interventi del coro e i recitativi autenticamente vivaldiani). Il direttore ticinese tiene saldamente il timone anche di questa nuova avventura vivaldiana e è impegnato più che mai a far trovare all’Orchestra del Teatro La Fenice un suono in linea con la moderna prassi esecutiva storicamente informata per far ascoltare la vera (o almeno verosimile) voce del Vivaldi operista nella sua città. Dopo un inizio prudente, l’orchestra acquista sicurezza e scioltezza strada facendo a conferma che la strada scelta dal direttore è quella giusta e che il materiale musicale sul quale costruire è di ottima qualità.
Di qualità anche la distribuzione vocale, che ha in Manuela Custer una protagonista di lunga esperienza nel barocco e in possesso di uno strumento vocale che rivela solo qualche lieve segno di usura. Al suo fianco, Lucia Cirillo disegna un trepidante e sensibile Elmiro, pienamente compiuto nel versante patetico. Buoni mezzi vocali ma interpretazione un po’ sottotono per il Nomio-Apollo secondo Véronique Valdes, che cresce sulla distanza e finalmente tira fuori il carattere in “Fidi amanti”. Insiste molto sugli aspetti comici il duo Eudamia-Filindo, la gigantessa e il bambino, che sulla scena sono la spiritosa Valeria Girardello e l’agilissima e spigliata Rosa Bove, così come il tronfio Admeto dal cuor di coniglio di Michele Patti. Fungono da elementi scenografici viventi gli indaffarati mimi della Fattoria Vittadini. Qualche inciampo nel Coro del Teatro La Fenice in formazione cameristica e non sempre immacolati gli interventi dei solisti, ma vien comunque fuori la freschezza creativa della scrittura vivaldiana.
Chissà se è stato il meteo avverso oppure il lungo ponte di fine aprile o magari il titolo davvero raro a pesare sui numerosi vuoti nella sala del Malibran alla prima. Il pubblico presente ha comunque risposto con grande calore all’indubbio interesse e qualità di questa felice riproposta vivaldiana.
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