Le mani di Alviano
A Zurigo Barrie Kosky firma il nuovo allestimento di Die Gezeichneten con la direzione di Vladimir Jurowski
Frank Schreker sta diventando una presenza regolare nelle stagioni liriche dei teatri europei e Die Gezeichneten (I predestinati) occupa una posizione di rilievo in questa rinascita di interesse. Alle produzioni recenti di Warlikowski a Monaco di Baviera e di Bieto a Berlino (senza dimenticare il battesimo italiano a Palermo di qualche stagione fa) si aggiunge da ultima Zurigo, che a dire il vero l’opera di Schreker l’aveva già riproposta nel 1992 sulla scia lunga dell’allestimento epocale della coppia Gielen&Neuenfels a Francoforte nel 1979. La nuova produzione firmata da Barrie Kosky per la regia e da Vladimir Jurowski per la direzione viene proposta in una versione molto tagliata (restano poco più di 2 ore di musica), con intere scene e personaggi minori sacrificati in nome di una maggiore compattezza drammatica.
Facciamocene una ragione: “Schreker non era Berg o Schönberg”, dice Jurowski, e dunque se si vuole apprezzare il suo valore occorre conservare solo le parti migliori. Barrie Kosky taglia e parecchio dell’originale ma taglia anche pesantemente sugli aspetti decorativi per la sua asciutta versione scenica tutta giocata sul violento contrasto fra bellezza ideale, che prende forma nella profusione di gessi classicheggianti della scena di Rufus Didwiszus ispirata alla gipsoteca canoviana di Possagno, e la bruttezza assoluta di Alviano, qui privato delle mani, oggetto del feticismo morboso di Carlotta. Fulcro narrativo diventa il momento simbolico della loro confrontazione nella scena fra l’artista, che faticosamente modella una massa informe di creta (dalla quale estrarrà solo le mani scheletriche da regalare a Alviano), e il suo osceno modello, ostentato su un piedistallo rotante. Se nei primi due atti si resta in coordinate sostanzialmente realistiche, nel terzo atto Kosky scaraventa lo spettatore nel delirio psicotico di Alviano per far tornare i conti con una drammaturgia, quella di Schreker, che è il trionfo del grand guignol con la stampella un po’ posticcia di un bignami del freudismo. Operazione ovviamente legittima, ma questo processo di normalizzazione sacrifica forse eccessivamente l’essenza pi^u autentica del lavoro, che è estetica dell’eccesso e del mostruoso.
Sul piano musicale il dimagrimento gioca in favore di un incedere incalzante e ad alta temperie drammatica, cui si aggiunge una lettura frenetica di Vladimir Jurowski, che legge Schreker attraverso la lente delle avanguardie del ’900, accentuando dissonanze e asimmetrie armoniche più che insistere sulle spirali sonore di sapore decadentista.
Come già a Monaco, si ritrovano due dei tre protagonisti, John Daszak (Alviano) e Catherine Naglestad (Carlotta), aiutati negli esasperati sforzi vocali dalla dimensione ridotta della sala di Zurigo, cui si aggiunge Thomas Johannes Mayer (Tamare) che regge lo sforzo a fatica. Rilievo particolare assumono alcune figure minori, come l’Adorno di Christopher Purves, un domatore nel circo della crudeltà inscenato nel terzo atto, l’imponente Lodovico Nardi di Albert Pesendorfer, e il brillante sestetto dei nobili corrotti (Paul Curievici, Iain Milne, Oliver Widmer, Cheyne Davidson, Ildo Song, Ruben Drole). Da segnalare anch l’ottima prova della Philharmonia Zürich e il breve ma plastico intervento del coro dell’Opera di Zurigo (e andrà anche elogiato Kosky che è uno dei pochi registi in circolazione a sapere come far muovere il coro nelle sue produzioni).
Parecchi vuoti in sala nella penultima delle otto recite in cartellone, ma accoglienza calorosissima.