Le ambiguità di Orfeo
Orphée et Euridice di Gluck, la versione francese, inaugura il Maggio Musicale Fiorentino 2022, con Daniele Gatti sul podio e lo spettacolo firmato da Pierre Audi e Jean Kalman
Si dava per la prima volta a Firenze Orphée et Euridice, la versione Parigi 1774 del capolavoro di Gluck, per l’inaugurazione, alquanto in anticipo sui tempi consueti, dell’edizione 2022 del festival del Maggio Musicale Fiorentino, nella nuova Sala Mehta da mille posti, giacché la sala grande è in ristrutturazione. Ed è stata un’inaugurazione pregevole, fra i cui elementi d’interesse va elencata l’incursione del nuovo direttore principale dell’Orchestra del Maggio, Daniele Gatti, in un repertorio finora da lui poco frequentato, in epoca e stile premozartiani. I risultati ci sono sembrati assai buoni, nel tratteggio trasparente ma vibrante delle linee e dei colori di Gluck, con un’attitudine più plastica e complessivamente diversa da quello della cosiddetta prassi “storicamente informata”, ma senza rinunciare a sonorità d’epoca (come il flauto traversiere, l’ottimo Mattia Petrilli, per il grande assolo della scena dei Campi Elisi), e una cura particolare nel tratteggiare la diversità di andamenti e caratteri dei numeri strumentali riservati alle danze, incrementati rispetto all’edizione viennese su testo italiano, in aderenza allo stile proprio della tragédie lyrique francese, il genere che Gluck volle sfidare e rinnovare come aveva fatto con l’opera italiana proprio a partire dall’Orfeo ed Euridice a Vienna nel 1762.
Mentre il coro era collocato assieme all’orchestra nella piccola buca della Sala Mehta, la scena era occupata dall’elegante décor in bianco e nero di Jean Kalman, nient’altro che due schermi mobili a tracciare il limite tra vita e morte, su cui si proiettavano le tracce dei movimenti del palcoscenico. La regìa di Pierre Audi si proponeva come una rilettura del mito che approfondiva gli aspetti più controversi di Orfeo, l’ambiguità di un personaggio dotato sì del potere magico di piegare natura e divinità con la parola e la musica, ma carente delle virtù del dominio di sé, della generosità, del rispetto dei confini naturali fra la vita e la morte: ambiguità, del resto, già presente nelle fonti antiche e in tante rivisitazioni moderne, qui svolta da Audi come violenza nello strappare Euridice dalla quiete luminosa degli Elisi, ma non diciamo di più per non guastarne l’effetto agli spettatori delle repliche. La funzione del coro in scena e della danza era affidata alla compagnia di danza di Arno Schuitemaker, che in mises metropolitane odierne e rigorosamente in nero-nudo, contrapposto al bianco dei tre protagonisti (firmava i costumi Haider Ackermann), si muoveva snodandosi in movenze e pose scultoree au ralenti, il che alla lunga, per le due ore dello spettacolo (l’opera è stata data senza intervallo), finiva per somigliare un po’ troppo ad un’esibizione di body building, e però, alla fine, trovava la sua giustificazione e la sua chiave di lettura nella scena finale, un Lieto Fine sui generis che ci ha molto colpito e che non riveliamo, limitandoci a dire che coronavano le ambiguità di cui si diceva. La riuscita di questo Orphée et Euridice è legata in gran parte, ci è parso, al modo generoso e intelligente in cui i tre validi interpreti dei ruoli solisti di Orfeo, Euridice e Amore, Juan Francisco Gatell (ricordiamo che nella versione francese il protagonista è un haute-contre ossia tenore acuto, che è la corda di Gatell), Anna Prohaska e Sara Blanch, hanno condiviso questa visione e questa lettura, non solo con la perizia e pertinenza stilistica del canto, ma anche con la loro presenza e azione scenica. Successo ottimo e repliche il 13, 19, 21 e 23 aprile, quest’ultima pomeridiana.
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