L’Apocalisse secondo Schmidt

Madrid riscopre Il libro dei sette sigilli

Recensione
classica
La scorsa settimana l’Orchestra della radiotelevisione spagnola ha proposto un’opera di rarissimo ascolto: l’oratorio di Franz Schmidt Il libro dei sette sigilli , tratto dall’Apocalisse di San Giovanni. Si tratta di un lavoro sinfonico-corale della durata di quasi due ore che ben testimonia la situazione musicale viennese del periodo tra le due guerre: il culto della tradizione musicale germanica, da Bach e Händel a Wagner, l’incapacità di uscire dalle tecniche ottocentesche del sinfonismo, da cui l’ipertrofia e la densità del discorso musicale, e la sensazione di un’apocalisse imminente, una fascinazione molto sinistra se si considera che la prima esecuzione avvenne nel 1938, ovvero alla vigilia della guerra.

Nel cercare di definire la figura di Schmidt, si sente spesso fare i nomi di Mahler e Bruckner, ma almeno a giudicare da quest’oratorio, sembra che il compositore fosse più della statura degli Humperdinck, cioè quella di un musicista dotato e ferratissimo nel suo mestiere, ma sostanzialmente un epigono. Wagner, quello dell’Incantesimo del venerdì santo, è infatti il modello che spunta un po’ ovunque in questa partitura, tanto che il tenore-narratore (il bravissimo Christian Elsner) raffigurante San Giovanni, non canta come ci si aspetterebbe alla maniera dell’Evangelista di Bach, ma come il Parsifal consapevole, dolente e raddolcito del terz’atto dell’opera di Wagner. La musica delle Passioni bachiane è però presente in alcuni cori e in particolare in arie e duetti con strumenti obbligati, ricalchi delle immortali meditazioni sul dolore cosmico del padre della musica tedesca. Più originali sono certi cori giubilanti di stampo handeliano, che per l’uso scoppiettante di ottoni e percussioni possono ricordare l’esuberanza della Messa Glagolitica di Janáček.

Pur non brillando per invenzione tematica, l’opera ha un suo carattere ingenuamente descrittivo, in particolare nella parte centrale (quella dell’apertura dei sigilli) che ne ridimensiona l’apparente gigantismo e rende le pretese filosofiche ed “elevate” dell’assunto molto più digeribili rispetto ad altri analoghi lavori tardo-romantici di area germanica. Così per esempio anche le due difficilissime fughe che musicalmente sono alquanto macchinose, si giustificano se inserite nel contesto della vicenda, dove rappresentano lo smarrimento degli uomini di fronte all’assurdità della guerra e di fronte al terremoto del Giudizio Universale. I due grandi difetti del lavoro sono da trovare nella scrittura, legata in modo scolastico e pedante alla tecnica dello sviluppo tematico (chissà cosa ne avrebbe detto Debussy…) e soprattutto nell’ultima lunga parte che segue l’apertura del settimo sigillo e che non ha niente da aggiungere al clima di contemplazione mistica dell’inizio. Così il lavoro la tira per le lunghe in modo insopportabile e termina ancora peggio con un’apoteosi retorica e chiassosa. L’esecuzione un po’ rigida di Leopold Hager ha comunque giovato alla partitura mettendone in evidenza i vari tasselli con sicurezza e senza sbrodolature. Peccato per l’organo elettrico, con suoni campionati per l’occasione dalla Cattedrale di Valencia, che è protagonista solista in due intermezzi di cui però si è capito ben poco. C’è da sperare che nell’encomiabile scelta di proporre lavori corali di rara esecuzione (l’anno scorso si diede la Morte del vescovo di Brindisi di Menotti), i responsabili dell’orchestra mettano in futuro nei loro programmi opere oggi sconosciute tanto quanto l’oratorio di Schmidt, ma assai più riuscite artisticamente, come i Canti di prigionia di Dallapiccola, il Coro di morti di Petrassi, il Grande Inquisitore di Blacher.

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