L'angelo di fuoco e la psicoanalisi
A Madrid Prokofiev secondo Bieito
La storia narrata in un libro come quello dell’Angelo di fuoco, del simbolista russo Valerij Brjusov, venata di tinte esoteriche, evocatrice delle cupe atmosfere dell’inquisizione del secolo XVI, nelle mani di Prokofiev, nel libretto che scrisse per l’opera omonima, si trasformò in una vicenda in cui il soprannaturale venne fortemente ridimensionato, connotandosi piuttosto per le sue forti implicazioni psicoanalitiche.
A sua volta, nelle mani del regista spagnolo Calixto Bieito, nell’allestimento andato in scena al Teatro Real di Madrid (e visibile su Arte) il racconto delle visioni e delle possessioni del personaggio di Renata si coniugano in una storia di abusi, fisici, psichici e sessuali vissuti dalla protagonista.
Una prospettiva, quella di Bieito, che si fa strada, fin dai primi momenti, con una caratterizzazione a tinte forti dell’isteria di Renata e dell’ambiguità di Ruprecht, interpretati mirabilmente da Aušrinė Stundytė e Leigh Melrose, forti di una straordinaria direzione musicale da parte del direttore spagnolo Gustavo Gimeno.
L’interpretazione drammaturgica di Bieito si configura come perfettamente coerente e congeniale con l’assunto del libretto, anche nella sua ambientazione anni ’50, con una perfetta conduzione attorale e dei movimenti d’insieme. Sulla scena iniziale una semplice bicicletta, da oggetto che sembra evocare nel personaggio di Renata ossessioni indicibili, diverrà alla fine ciò che brucerà come in un falò espiatorio, dopo il turbine di un’azione corale estremamente impattante.
Tutto l’impianto scenografico è caratterizzato da una permanente struttura rotante, su cui di volta in volta vengono proiettate immagini di rara efficacia, con diversi interni: la camera di un bambino, un ambulatorio ginecologico, una taverna. Sono spazi angusti o di ampie dimensioni, oppressivi o quasi dilatati, come in una composizione di parallelepipedi. Sono spazi emblematici in cui i personaggi del dramma si agitano nello svolgersi dell’azione e che si caratterizzano per una forte valenza simbolica e metaforica.
La direzione di Gimeno mantiene costantemente alta la tensione e il clima emotivo dell’opera, con un deciso controllo ritmico, delle parti vocali e della fossa, così come di un’ottima compagine corale.
A completare la notevole riuscita di questo capolavoro del Novecento c’è la resa di un cast vocale d’eccezione.
Negli ardui compiti dei protagonisti, quasi sempre in scena per tutta la durata dell’opera, eseguita senza interruzioni, Leigh Melrose è un Ruprecht che snoda una particolare ricchezza di sfumature vocali e un carattere deciso del personaggio, la Stundytė, applaudidissima assieme a tutto il cast da un pubblico entusiasta, si prodiga, anche muovendosi freneticamente, dimenandosi e rotolandosi per terra, con una grande ricchezza di accenti e un grande controllo dell’emissione, dal sussurrato al grido, dal lungo monologo iniziale fino all’esplosiva scena finale.
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