La Violetta dei veli a Lugano
Successo per il nuovo allestimento dell’opera verdiana, che ha aperto la nuova stagione del LAC di Lugano
Una Violetta che nasce direttamente dalle pagine musicali di Giuseppe Verdi più che dal libretto di Francesco Maria Piave: è questa l’intenzione dichiarata da Carmelo Rifici, regista del nuovo allestimento de La traviata che ha aperto con successo la nuova stagione del LAC di Lugano. Doveva essere la seconda produzione lirica allestita nella sala luganese dopo la prima assoluta del Barbiere di Siviglia ma poi ci si è messa di mezzo la pandemia e tutto è slittato a questa stagione. E doveva essere la Traviata “degli specchi” di Brockhaus e Svoboda, vista dovunque dopo Macerata nel 1992, ma nel frattempo le cose sono cambiate e al LAC si è deciso (saggiamente) per un nuovo allestimento per l’unica produzione lirica del ricco cartellone, impiegando le forze di casa.
«A Venezia faccio la Dame aux Camelias che avrà per titolo, forse, Traviata. Un sogeto dell’epoca. Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi, e per mille altri goffi scrupoli… Io lo faccio con tutto il piacere»: è Verdi che scriveva così della sua opera all’amico Cesare de Sanctis nel gennaio del 1853. Un soggetto di attualità, dunque, per fustigare l’ipocrisia di una società, che lo stesso compositore aveva provato sulla sua pelle per via di quel legame “scandaloso” con la Strepponi anche nella sua Busseto. Poi si misero di mezzo la censura e una certa cedevolezza di Piave e La traviata fu retrodatata al secolo precedente, depotenziandone la corrosiva critica alla società contemporanea.
Non è quello però l’umore che si coglie nella Traviata “verdiana” secondo Carmelo Rifici. Verdi compare sì in scena già dalle tenui note del preludio ma la cosa si ferma là, rimanendo il creatore dell’opera uno spettatore presente lungo tutto lo spettacolo ma ai margini della vicenda, seduto al suo pianoforte. Non siamo al fin troppo citato flashback di zeffirelliana memoria, ma anche questa Traviata è giocata sul filo della memoria, quella di Violetta che guarda con nostalgia all’età dell’innocenza, vittima ormai di un destino ineluttabile. In scena si vede anche una Violetta bambina vestita di bianco (come lei adulta), spesso rapita dall’incanto delle ombre cinesi proiettate sulle pareti della propria stanza anche nel momento della fine (le suggestive ombre sono curate da Teatro Gioco Vita). Dalla Traviata degli specchi alla Traviata dei veli, che abbondano nelle scelte scenografiche di Guido Buganza, intonate alla lettura registica: i lunghi veli definiscono spazi dalle pareti smaterializzate e sfumano le presenze come immagini sfocate nei ricordi. All’opposto, i costumi di Margherita Baldoni sono stilisticamente perentori e evocano la contemporaneità di Verdi, allontanando ogni possibile aggancio alla nostra contemporaneità.
In contrasto con una lettura scenica che insiste sulla dimensione intima e sull’introspezione psicologica, la direzione musicale di Markus Poschner è tutta esteriore e muscolare: il suono richiesto all’Orchestra della Svizzera italiana è troppo spesso esagerato (e davvero non se ne sente il bisogno in una sala dalle dimensioni contenute e tutt’altro che sorda acusticamente), avarissime le finezze strumentali e il passo fin troppo spedito. A questo si aggiunge qualche problema fra buca e scena (prove insufficienti?) che si nota soprattutto nel pur apprezzabile Coro della Radiotelevisione svizzera e che non aiuta troppo la compagnia di canto. Protagonista è Myrtò Papatanasiu, una Violetta Valéry che convincente soprattutto nel registro drammatico e molto meno nel primo atto, che chiude con una “cabaletta brillante” molto forzata e pochissimo brillante. Alfredo è Airam Hernández, tenore di apprezzabili qualità vocali ma pochissimo personaggio, come il babbo suo che è Giovanni Meoni, baritono vocalmente molto solido ma ancoratissimo alla convenzione sul piano interpretativo. Buone nel complesso le prove dei comprimari, cominciando da Michela Petrino, una sensibile Annina, a Sofia Tumanyan, una Flora Bervoix “a cavallo” (nella festa del secondo atto) fin troppo misurata, Davide Fersini, un sanguigno Douphol, fino a Laurence Meikle, d’Obigny, Lorenzo Izzo, Gastone, e Mattia Denti, un particolarmente compassionevole dottor Grenvil.
Sala esaurita alla prima e caldi applausi non solo nel finale ma anche ai molti momenti più popolari dell’opera verdiana.
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