La versatilità di Kaija

Al Teatro Real di Madrid Only the sound remains di Kaija Saariaho

Only the sound remains
Only the sound remains
Recensione
classica
Teatro Real, Madrid
Only the sound remains
23 Ottobre 2018 - 09 Novembre 2018

Quando si discute sugli odierni destini dell’opera, in un dibattito che - possiamo dirlo - dura ormai da un secolo, gli esempi e le prospettive che si profilano possono essere tra le più svariate; il  tentativo è quello di conciliare una tradizione, che sta lì come un’ingombrante macigno, con le tante anime e universi dei linguaggi contemporanei che di volta in volta si affacciano sulla scena. In tal senso Only the sound remains, della compositrice finlandese Kaija Saariaho, presentato al Teatro Real di Madrid, si può caratterizzare come una complessa sintesi di orientamenti e di livelli espressivi. Organico da opera da camera: sulla scena un controtenore, un baritono,  una danzatrice; nel fosso: un quartetto vocale, un quartetto d’archi, un percussionista, flauto e kantele (una sorta di cetra, strumento tradizionale finlandese). 

Sulla base di una raffinata ricerca timbrica, che evoca atmosfere varesiane, si snoda un linguaggio in cui si affastellano dense polifonie vocali con estenuanti melologhi, clangori percussivi, tra le dilatate vibrazioni di gong e rapsodici scatti ritmici, le delicate sonorità dei diversi tipi di flauto con gli arabeschi del kantele, sonorità elettroniche, aspre dissonanze, atmosfere modali. 

Le fonti letterarie del libretto attingono alla tradizione giapponese del teatro del nō di due racconti,  tramandati agli inizi del ‘900 dalle ricerche del sinologo Ernest Fellonosa e quindi tradotti da Ezra Pound. E le esili trame dei due racconti, permeati di un’aura di intenso spiritualismo si snodano con il tono di un apologo ed il linguaggio poetico allusivo di un haiku.

 La Saariaho riesce indubbiamente a creare una scrittura fatta di una sapiente sintesi linguistica, densa di fascino: abbiamo apprezzato soprattutto le parti per voci per quartetto, anche per la mirabile interpretazione dell’ensemble vocale.

Diciamo che questa fascinazione riesce ad essere incisiva e pregnante nei dettagli e in momenti specifici, anche in bellissime ed intense parentesi strumentali, ma forse, in questa rinuncia ascetica, in questo lavoro che potremmo definire come una sorta di oratorio zen, la tensione drammaturgica viene come a mancare, con un diffuso senso di monotonia nel divenire complessivo dei due episodi. 

La regia super essenziale di Peter Sellars vuole ricalcare le rarefatte atmosfere del teatro giapponese, con una cura dettagliata ed estremamente attenta dei movimenti e della mimica degli interpreti – come una libellula si muovela danzatrice Nora Kimbal-Mentzos - nonché del gruppo vocale, che emerge dalla buca su una sorta di piedistallo. Così come essenziali sono, la scarna e buia scena, a cui fa da sfondo il dipinto astratto, con effetti cangianti, della artista etiope-statunitense Julie Mehretu, ed il costume che indossano tutti gli interpreti: un semplicissimo pigiama grigio. Forse una disposizione sulla scena anche degli strumentisti e del quartetto vocale - così come nella tradizione del nō - avrebbe favorito la visione di un’interazione e di una dialettica più intensa tra suono e parola.

Ottimo il livello dell’esecuzione musicale, di una puntuale direzione di Ernest Martínez-Izquierdo (che nella rappresentazione cui abbiamo assistito ha sostituito il direttore titolare, Ivor Bolton, perché indisposto), con la perizia e la presenza scenica del baritono statunitense Davone Tines e il gusto, la delicatezza e la sicurezza vocale del controtenore francese Philippe Jaroussky, protagonista dell’opera. Applauditissimi tutti gli interpreti alla fine.

 

 

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