​​​​​​​La Valéry ai tempi dei social 

A Palais Garnier una deludente Traviata modaiola con la regia di Simon Stone e interpreti non all’altezza 

La Traviata 
La Traviata 
Recensione
classica
Parigi, Opéra national de Paris (Palais Garnier)
La Traviata 
09 Settembre 2019 - 16 Ottobre 2019

Per quella che per La Traviata all’Opéra di Parigi sembra una regola dell’alternanza fra Bastille e Garnier, tocca a quest’ultima e più accogliente sala presentare il nuovo allestimento dell’opera verdiana. Curiosa è anche la regolarità nell’alternanza fra allestimenti di impianto sostanzialmente tradizionale come i due di Bastille (Jonathan Miller nel 1997 e Benoît Jacquot nel 2012) e quelli modernizzanti di Garnier. Volendo spingersi ancora oltre, anche se la produzione del 2007 a firma Christoph Marthaler a Garnier non aveva riscaldato troppo gli animi, aveva almeno il grande pregio di poter contare su due “bestie di scena” straordinarie all’epoca come Christine Schäfer e Jonas Kaufmann. Invece la Traviata che ha aperto questa stagione dell’Opéra di Parigi, purtroppo, di pregi ne ha ben pochi. 

Se non tutto, punta moltissimo sul talento del regista australiano Simon Stone, che però dopo soli quattro spettacoli, sembra già mostrare un drammatico calo di ispirazione e un precoce ripiegarsi su modalità drammaturgiche ripetitive e assai meno forti delle produzioni, soprattutto di prosa, che l’hanno fatto conoscere nei teatri europei. Già nella Medée vista di recente a Salisburgo si notava una tendenza eccessiva alla banalizzazione del soggetto con conseguente depotenziamento dell’impatto drammatico. A questa Traviata, cosiddetta “moderna” ma sono nelle scelte estetiche delle scene di Bob Cousins e negli eccentrici costumi modaioli di Alice Babidge, si aggiunge una certa approssimazione nella realizzazione e nella direzione attoriale e un indulgere all’ormai consueto bombardamento di immagini in stile “social”, ad alto tasso tecnologico e a bassa intensità emotiva. In poche parole, questo spettacolo sta al teatro come Jeff Koons sta all’arte contemporanea, ossia tende a porsi al discrimine fra la critica alla società dell’immagine e il confortante “glam”. 

Se in origine era già la scelta di un personaggio scabroso come la prostituta d’alto bordo Alphonsine Duplessis a contenere un alto potenziale di destabilizzante critica sociale – e Verdi ne era certo molto consapevole quando ammetteva: “un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi e per altri mille goffi scrupoli. Io lo faccio con tutto il piacere” così come la censura che obbligò a predatare il melodramma – la trasformazione della protagonista in @violettavaléry influencer con milioni di follower e un redditizio ritorno pubblicitario non appare una scelta drammaturgica dirompente, ma un semplice, e tutto sommato innocente, aggiornamento modaiolo e pochissimo urticante sul piano della critica sociale. 

Si sguazza nel glamour, pane quotidiano dell’influencer, fra fontane di champagne su piramidi di flûte e la corrida dei tori con corna falliche chez la Bervoix (fra parentesi, il festone a tema sessuale di Flora affoga nel ridicolo dei movimenti impacciatissimi specie del coro costretto all’oscena mascherata). La scoperta dell’amore apre una parentesi bucolica con Alfredo scalzo che pigia l’uva nel tino e Violetta che munge una vacca vera, ma quel fondale bianco abbacinante produce un spiazzante senso di straniamento nel climax drammatico della vicenda. E lo stesso bianco fondale è più efficace quando accoglie il letto di ospedale dell’ultimo capitolo: il cancro di Violetta che rivela il vuoto dietro la superficie luccicante in tutta la sua devastante grandezza. Tutto è immagine nell’era dei social e quando l’immagine si spegne si spengono anche le vite. 

Sorvoliamo sulla solita, fastidiosa discrasia fra immagini contemporanee e testo obsoleto. La messaggistica con pioggia di emoticon invade i due maxischermi LED rotanti, ma Violetta continua a servirsi ancora di domestici e commissionari per comunicare con Alfredo (meglio un messaggio vocale, no?). È solo uno dei sintomi di una reticenza ad andare fino in fondo con coerenza, che rinforza l’impressione di un intervento drammaturgico puramente cosmetico. Anche da questo punto di vista questa Traviatasembra un passo indietro rispetto alle scelte più coerenti della Medée di Salisburgo e parecchi rispetto al formidabile Lear ,contaminato anche da inserti pop ma con ben altri risultati, allestito sempre a Salisburgo da Simon Stone solo due anni fa. 

Piuttosto inerte sul piano drammatico anche la direzione di Michele Mariotti, fin troppo elegante e affettata nel fraseggio e probabilmente frenata dalla fragilità di un cast vocale con parecchie debolezze e scarsissimo carisma nei ruoli principali del secondo cast. Zuzana Marková è una Violetta corretta e affidabile che riesce a emergere come personaggio solo alla fine, Atalla Ayan è un Alfredo di bel timbro ma quasi distaccato sul versante scenico e JeanFrançois Lapointe è un Germont padre piuttosto incolore. Niente da segnalare nel resto del cast, tranne l’Annina di carattere di Marion Lebègue, giovane interprete di comprovate doti in ruoli più impegnativi. 

Sala gremita, applausi significativi solo ai tre protagonisti e al direttore d’orchestra. 

 

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