La svolta della Taranta
Un'edizione difficile da dimenticare
Recensione
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Dopo 44 spettacoli distribuiti su un arco di 16 giorni e dislocati nelle piazze e negli angoli urbani più suggestivi del Salento e della grecìa salentina, il concertone di Melpignano di sabato 27 agosto, diretto quest’anno da Carmen Consoli, ha decretato la fine dell’estate nel tacco d’Italia. È così calato il sipario sulla diciannovesima edizione de La Notte della Taranta, il più grande festival italiano di musica popolare.
Diversi giorni sono trascorsi dalla lunga notte melpignanese ma i riff di chitarra, la voce scansonata della Mannoia che intona “Lo zinzale”, l’interpretazione appassionata e commovente di Tosca in “Carceri” hanno continuato ad accompagnarmi anche una volta lontana dal Salento. E commentando al bar, con amici, colleghi e passanti quella lunga notte, ho capito che non ero la sola ad aver continuato a canticchiare le melodie del concertone per giorni e giorni. Allora forse, ho pensato, l’intenzione è arrivata davvero. Quella di Daniele Durante, direttore artistico del concertone e quella di Carmen Consoli che ha colto il senso di questa musica nella sua concertazione. E già, la musica è proprio arrivata. Che poi questo devono fare i suoni e le parole della tradizione popolare, arrivare dritti, andare a segno imprimendosi nella mente, continuare a tenerci compagnia, consolarci, divertirci nel tempo. E questo hanno fatto una buona parte dei 44 brani della tradizione eseguiti a Melpignano sabato scorso. Molti, anzi davvero tanti, hanno apprezzato il radicale lavoro di ripulitura da fronzoli e orpelli, da divismi e tic da star realizzato in un’estate intensa di prove. L’orchestra era compatta e concentrata in scena – ho sentito commentare da tanti – eseguiva consapevolmente un repertorio che possiede una grammatica musicale propria e che esprime uno specifico modo di essere al mondo, quello della tradizione popolare del sud.
VideoTosca
Questa edizione ha davvero segnato una svolta nella storia del festival di world music più noto d’Italia. I presupposti c’erano tutti, i segnali di questa svolta si percepivano nel modo in cui Daniele Durante voleva che questa orchestra suonasse, nell’attenzione e la curiosità che Carmen Consoli ha rivolto alla tradizione musicale salentina. Lei, la maestra concertatrice, cantava tutto il repertorio a memoria durante le prove e non era mai successo prima.
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Poi ci si mettono le circostanze esterne e un concerto, la musica, gli artisti, si mettono a servizio degli eventi duri, severi, tragici. In tanti lo abbiamo percepito, lì sotto il palco: non era il concertone degli ultimi anni, quello che si attendeva per applaudire gratis la star di turno o il proprio beniamino esuberante, per “zumpare” bevendo e per bere “zumpando”. Complici, certo, tutte queste concomitanze: una maestra concertatrice preparata, accogliente e dialogante, due direttori artistici Luigi Chiriatti e Daniele Durante che la tradizione popolare salentina e il linguaggio della pizzica lo conoscono e lo comprendono come pochi. Poi, qualche giorno prima la terra ha tremato a diverse centinaia di chilometri dal tacco d’Italia, dal cuore del Salento.
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A che serve più la musica allora, a che serve cantare, suonare? Il 27 agosto nessuno aveva più voglia di fare festa, la festa della taranta che il pubblico aspetta ogni estate per lasciarsi andare agli eccessi e inscenare un disarticolato ed euforico rito tribale. E così, finalmente, il concertone quest’anno è diventato altro; la musica, è tornata, come nella terapia del tarantismo, come nei rituali funebri di un tempo, a rispondere alle primordiali funzioni che sono quelle di ogni musica di tradizione. Il carattere della musica salentina è venuto fuori quest’anno in una condizione nazionale di precarietà e di dolore. Il concertone, come solo pochissime altre volte nel corso della sua storia, ha assolto a una funzione, quella di consolare, di accompagnare, di sanare. Non ci siamo divertiti quest’anno al concertone finale de La Notte della Taranta, però abbiamo ascoltato, spesso in silenzio e col fiato sospeso, come quando Nada ha cantato “Aremu” in grìco, Lisa Fisher ha interpretato “Tonni tonni” o Buika ha intonato “Ntunucciu” con una cadenza inconfondibilmente salentina e una incredibile forza espressiva.
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Abbiamo applaudito, tutto il pubblico ha applaudito perché finalmente era lì per porgere l’orecchio e mettersi in ascolto, perché l’orchestra tutta ha suonato con convinzione, garbo e maestria il proprio repertorio.
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Certo, possiamo chiederci: come sarebbe stata la notte del 27 agosto a Melpignano senza la maratona di solidarietà che è scattata in favore delle vittime del terremoto, senza la tristezza profonda che chiunque era lì, sul palco e sotto, condivideva con tutta una nazione. Sarebbe stata diversa comunque dalle altre questa notte della taranta, ne sono certa. Qualcosa di profondo era già cambiato, non è stato un semplice adeguarsi alle circostanze. Il mutamento di segno e la riflessione erano già in corso, nella concezione dell’intero festival, nella scelta dei messaggi da veicolare, nel modo di suonare e di far suonare i musicisti e in particolar modo i musicisti dell’Orchestra, ma anche nell’indirizzare e guidare l’ascolto. Un’idea fondante di questa diciannovesima edizione credo l’abbiano colta in molti: la musica popolare salentina (e non solo) si balla, certo, ma si ascolta pure, perché, se suonata bene, questa musica è anche tanto bella.
Non solo il pubblico del concertone, quindi, ma quello delle tappe itineranti negli straordinari angoli dei comuni della Grecìa salentina, io l’ho visto finalmente intento ad ascoltare, applaudire e partecipare con attenzione e con rispetto al concerto. Un caso? Una coincidenza fortunosa? Non credo. Qualcosa nell’aria, un’istanza, una richiesta di novità si percepivano già lo scorso anno durante il festival itinerante e Luigi Chiriatti è stato bravissimo a intercettarle, a dare un seguito e a strutturarle. Quest’anno, allora, ha risposto concretamente a questa istanza con una sorta di festival nel festival destinato, sì è vero, alle bocche buone, ma proprio quelle per anni e anni erano state sin troppo emarginate per privilegiare la frenesia delle danze, lo zumpa zumpa e l’indice puntato al cielo. E così Luigi (Gigi, in Salento) Chiriatti ha imbastito una storia nuova e l’ha chiamata “altra tela”, un esperimento riuscitissimo di sei proposte musicali, per l’ascolto e la riscoperta della musica popolare, non solo quella salentina. Sei quadri che per sei sere su sedici hanno preceduto i più “rumorosi” concerti sul grande palco in piazza per ricostruire una parte della storia della musica popolare in Italia dal 1964, l’anno di “Bella ciao”, alle più contemporanee esperienze di riproposta della canzone popolare italiana. E il pubblico, quello di bocca buona, ma anche quello dei curiosi, è accorso numeroso per partecipare all’esperimento e ascoltare, in silenzio, con attenzione. Prima la tradizione napoletana, nella piazza della suggestiva Acaya, con l’attesissimo e applauditissimo omaggio per il quarantennale de La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone, portato in scena da Giovanni Mauriello, storico fondatore della NCCP. Poi, a Soleto, Pino Ingrosso che ha cantato le sue Note di viaggio e raccontato la sua storia di migrante. Sulla splendida piazzetta Palmieri di Martignano, la voce di Dario Muci e il mandolino di Antonio Calsolaro hanno incantato un folto pubblico di appassionati della tradizione della barberia, magistralmente documentata e interpretata dal mandolinista di Alessano.
Nel palazzo baronale de Gualtieriis, l’attore Giorgio Tirabassi si è misurato con la canzone popolare romana e, accompagnato da un’elegante e raffinata orchestrina jazz, ha convinto, coinvolto e ammaliato anche chi era lì inizialmente attratto dal nome televisivo.
A Cutrofiano, il paese dell’artigianato, abbiamo ascoltato la Sicilia agropastorale di Alfio Antico, accompagnato alle chitarre da Attilio Turrisi. Due i musicisti in scena: una voce, un tamburo, una chitarra classica e una battente per una sequenza di storie del più profondo sud eseguite con una carica espressiva e una eleganza straordinarie. Un’estetica essenziale, ma di grande impatto emotivo. E il pubblico ha gradito col fiato sospeso. Il ciclo fortunato e apprezzatissimo dell’Altra tela si è concluso con un pezzo della storia della musica di riproposta in Italia. Riccardo Tesi, sostenuto da compagni di viaggio eccezionali, ha riportato in scena Bella ciao, lo spettacolo presentato il 20 giugno 1964 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che suscitò grande scandalo e costò una denuncia per vilipendio ai responsabili della manifestazione e a Michele Straniero e per aver intonato “ O Gorizia, tu sei maledetta”, canzone di trincea della Grande Guerra. La piazza Castello di Sternatia, gremita e a tratti evidentemente nostalgica, ha dimostrato che c’è un popolo della taranta alla ricerca di buona musica, di storia e di contenuti. E noi ci auguriamo che il processo di ridefinizione del gusto e delle proposte musicali, inaugurato quest’anno con l’Altra tela, coinvolga anche i concerti di piazza, ormai fin troppo lunghi, obsoleti nella formula, e spesso anche deludenti sul piano della ricerca musicale.
Il sipario è calato su La Notte della Taranta. Ma questa diciannovesima edizione è stata carica di senso: il senso della storia, dell’appartenenza, della comunità e della socialità, quello della solidarietà, valori forti che sono quelli delle comunità contadine della Grecìa salentina che qui ho potuto studiare per diversi anni. E poi è stata l’edizione in cui riscoprire il senso di una musica che non è solo ricerca ansiogena della spettacolarizzazione di se stessa. Niente fronzoli e niente eccessi, poche star, anzi nessuna, e di certo meno di tutti la maestra concertatrice Carmen Consoli, nessun esotismo dai lontani echi coloniali. Perché in fondo, diciamocela tutta, quando i contenuti ci sono e si portano in superficie con attenzione e cura dei particolari, quando i significati profondi vengono rispettati e valorizzati, gli espedienti spettacolari non sono più così necessari. Il pubblico lo percepisce, e applaude. A volte non sa nemmeno perché applaude, ma il messaggio, consapevolmente o no è stato colto e quel pubblico continua per giorni e giorni a canticchiare.
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Questa edizione ha davvero segnato una svolta nella storia del festival di world music più noto d’Italia. I presupposti c’erano tutti, i segnali di questa svolta si percepivano nel modo in cui Daniele Durante voleva che questa orchestra suonasse, nell’attenzione e la curiosità che Carmen Consoli ha rivolto alla tradizione musicale salentina. Lei, la maestra concertatrice, cantava tutto il repertorio a memoria durante le prove e non era mai successo prima.
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Poi ci si mettono le circostanze esterne e un concerto, la musica, gli artisti, si mettono a servizio degli eventi duri, severi, tragici. In tanti lo abbiamo percepito, lì sotto il palco: non era il concertone degli ultimi anni, quello che si attendeva per applaudire gratis la star di turno o il proprio beniamino esuberante, per “zumpare” bevendo e per bere “zumpando”. Complici, certo, tutte queste concomitanze: una maestra concertatrice preparata, accogliente e dialogante, due direttori artistici Luigi Chiriatti e Daniele Durante che la tradizione popolare salentina e il linguaggio della pizzica lo conoscono e lo comprendono come pochi. Poi, qualche giorno prima la terra ha tremato a diverse centinaia di chilometri dal tacco d’Italia, dal cuore del Salento.
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A che serve più la musica allora, a che serve cantare, suonare? Il 27 agosto nessuno aveva più voglia di fare festa, la festa della taranta che il pubblico aspetta ogni estate per lasciarsi andare agli eccessi e inscenare un disarticolato ed euforico rito tribale. E così, finalmente, il concertone quest’anno è diventato altro; la musica, è tornata, come nella terapia del tarantismo, come nei rituali funebri di un tempo, a rispondere alle primordiali funzioni che sono quelle di ogni musica di tradizione. Il carattere della musica salentina è venuto fuori quest’anno in una condizione nazionale di precarietà e di dolore. Il concertone, come solo pochissime altre volte nel corso della sua storia, ha assolto a una funzione, quella di consolare, di accompagnare, di sanare. Non ci siamo divertiti quest’anno al concertone finale de La Notte della Taranta, però abbiamo ascoltato, spesso in silenzio e col fiato sospeso, come quando Nada ha cantato “Aremu” in grìco, Lisa Fisher ha interpretato “Tonni tonni” o Buika ha intonato “Ntunucciu” con una cadenza inconfondibilmente salentina e una incredibile forza espressiva.
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Abbiamo applaudito, tutto il pubblico ha applaudito perché finalmente era lì per porgere l’orecchio e mettersi in ascolto, perché l’orchestra tutta ha suonato con convinzione, garbo e maestria il proprio repertorio.
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Certo, possiamo chiederci: come sarebbe stata la notte del 27 agosto a Melpignano senza la maratona di solidarietà che è scattata in favore delle vittime del terremoto, senza la tristezza profonda che chiunque era lì, sul palco e sotto, condivideva con tutta una nazione. Sarebbe stata diversa comunque dalle altre questa notte della taranta, ne sono certa. Qualcosa di profondo era già cambiato, non è stato un semplice adeguarsi alle circostanze. Il mutamento di segno e la riflessione erano già in corso, nella concezione dell’intero festival, nella scelta dei messaggi da veicolare, nel modo di suonare e di far suonare i musicisti e in particolar modo i musicisti dell’Orchestra, ma anche nell’indirizzare e guidare l’ascolto. Un’idea fondante di questa diciannovesima edizione credo l’abbiano colta in molti: la musica popolare salentina (e non solo) si balla, certo, ma si ascolta pure, perché, se suonata bene, questa musica è anche tanto bella.
Non solo il pubblico del concertone, quindi, ma quello delle tappe itineranti negli straordinari angoli dei comuni della Grecìa salentina, io l’ho visto finalmente intento ad ascoltare, applaudire e partecipare con attenzione e con rispetto al concerto. Un caso? Una coincidenza fortunosa? Non credo. Qualcosa nell’aria, un’istanza, una richiesta di novità si percepivano già lo scorso anno durante il festival itinerante e Luigi Chiriatti è stato bravissimo a intercettarle, a dare un seguito e a strutturarle. Quest’anno, allora, ha risposto concretamente a questa istanza con una sorta di festival nel festival destinato, sì è vero, alle bocche buone, ma proprio quelle per anni e anni erano state sin troppo emarginate per privilegiare la frenesia delle danze, lo zumpa zumpa e l’indice puntato al cielo. E così Luigi (Gigi, in Salento) Chiriatti ha imbastito una storia nuova e l’ha chiamata “altra tela”, un esperimento riuscitissimo di sei proposte musicali, per l’ascolto e la riscoperta della musica popolare, non solo quella salentina. Sei quadri che per sei sere su sedici hanno preceduto i più “rumorosi” concerti sul grande palco in piazza per ricostruire una parte della storia della musica popolare in Italia dal 1964, l’anno di “Bella ciao”, alle più contemporanee esperienze di riproposta della canzone popolare italiana. E il pubblico, quello di bocca buona, ma anche quello dei curiosi, è accorso numeroso per partecipare all’esperimento e ascoltare, in silenzio, con attenzione. Prima la tradizione napoletana, nella piazza della suggestiva Acaya, con l’attesissimo e applauditissimo omaggio per il quarantennale de La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone, portato in scena da Giovanni Mauriello, storico fondatore della NCCP. Poi, a Soleto, Pino Ingrosso che ha cantato le sue Note di viaggio e raccontato la sua storia di migrante. Sulla splendida piazzetta Palmieri di Martignano, la voce di Dario Muci e il mandolino di Antonio Calsolaro hanno incantato un folto pubblico di appassionati della tradizione della barberia, magistralmente documentata e interpretata dal mandolinista di Alessano.
Nel palazzo baronale de Gualtieriis, l’attore Giorgio Tirabassi si è misurato con la canzone popolare romana e, accompagnato da un’elegante e raffinata orchestrina jazz, ha convinto, coinvolto e ammaliato anche chi era lì inizialmente attratto dal nome televisivo.
A Cutrofiano, il paese dell’artigianato, abbiamo ascoltato la Sicilia agropastorale di Alfio Antico, accompagnato alle chitarre da Attilio Turrisi. Due i musicisti in scena: una voce, un tamburo, una chitarra classica e una battente per una sequenza di storie del più profondo sud eseguite con una carica espressiva e una eleganza straordinarie. Un’estetica essenziale, ma di grande impatto emotivo. E il pubblico ha gradito col fiato sospeso. Il ciclo fortunato e apprezzatissimo dell’Altra tela si è concluso con un pezzo della storia della musica di riproposta in Italia. Riccardo Tesi, sostenuto da compagni di viaggio eccezionali, ha riportato in scena Bella ciao, lo spettacolo presentato il 20 giugno 1964 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che suscitò grande scandalo e costò una denuncia per vilipendio ai responsabili della manifestazione e a Michele Straniero e per aver intonato “ O Gorizia, tu sei maledetta”, canzone di trincea della Grande Guerra. La piazza Castello di Sternatia, gremita e a tratti evidentemente nostalgica, ha dimostrato che c’è un popolo della taranta alla ricerca di buona musica, di storia e di contenuti. E noi ci auguriamo che il processo di ridefinizione del gusto e delle proposte musicali, inaugurato quest’anno con l’Altra tela, coinvolga anche i concerti di piazza, ormai fin troppo lunghi, obsoleti nella formula, e spesso anche deludenti sul piano della ricerca musicale.
Il sipario è calato su La Notte della Taranta. Ma questa diciannovesima edizione è stata carica di senso: il senso della storia, dell’appartenenza, della comunità e della socialità, quello della solidarietà, valori forti che sono quelli delle comunità contadine della Grecìa salentina che qui ho potuto studiare per diversi anni. E poi è stata l’edizione in cui riscoprire il senso di una musica che non è solo ricerca ansiogena della spettacolarizzazione di se stessa. Niente fronzoli e niente eccessi, poche star, anzi nessuna, e di certo meno di tutti la maestra concertatrice Carmen Consoli, nessun esotismo dai lontani echi coloniali. Perché in fondo, diciamocela tutta, quando i contenuti ci sono e si portano in superficie con attenzione e cura dei particolari, quando i significati profondi vengono rispettati e valorizzati, gli espedienti spettacolari non sono più così necessari. Il pubblico lo percepisce, e applaude. A volte non sa nemmeno perché applaude, ma il messaggio, consapevolmente o no è stato colto e quel pubblico continua per giorni e giorni a canticchiare.
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