La Russia di Gergiev

Il Novecento russo a Santa Cecilia con Gergiev e Cho

Recensione
classica
Accademia Nazionale di Santa Cecilia Roma
02 Febbraio 2017
Valery Gergiev è un direttore versatile, ma con la musica russa ha un rapporto privilegiato, immediato, istintivo e vi si getta a capofitto, senza remore. Il suo Sacre du printemps è - come da sottotitolo - il quadro di una Russia pagana immaginaria, primitiva, o piuttosto primitivista: siamo trasportati in un mondo barbarico, fatto di istinti primordiali e di fisicità incontrollata, tra ritmi squassanti, sonorità rudi, violente irruzioni, silenzi sgomenti. Gergiev si tiene distante sia dal rigore matematico dell'incisione di Boulez sia dall'interpretazione più "parigina" di Pierre Monteux - il direttore della prima assoluta del 1913 - che dava una certa grazia ed eleganza anche alla violenza tellurica di questa musica. Lo stesso Stravinsky - a giudicare dall'interpretazione molto asciutta da lui consegnata al disco - non avrebbe del tutto approvato lo scatenamento di Gergiev. Se c'è un limite nella sua interpretazione è nel bruciarsi in una serie di scoppi isolati, perdendo così il progressivo, terribile, quasi intollerabile accumulo di energia, tensione e violenza del Sacre. Ad apertura del concerto Gergiev aveva presentato il Concerto per orchestra n. 1 dell'ottantacinquenne Rodion Scedrin, compositore russo che, pur evitando la retorica del realismo socialista, è riuscito ad attraversare gli ultimi decenni dell'Urss non solo senza problemi ma anzi con grandi onori, scrivendo pezzi accattivanti che i suoi coetanei occidentali adepti dell'avanguardia consideravano vituperevoli, ma che la nostra epoca postmoderna ha rivalutato. Questo suo Concerto del 1963 è scritto con abilità virtuosistica e si fa ascoltare con interesse. Soprattutto ci ha riservato una scoperta: poiché in questo suo lavoro Scedrin fa esplicito riferimento a un genere di canzone popolare russa simile a uno stornello improvvisato e poiché ci sono molti passaggi che ricordano gli strumentini graffianti e ironici e i tromboni beffardi e grotteschi delle Sinfonie di Shostakovich, mentre tutta la parte centrale ricorda la cornetta e la confusione della festa popolare del Petruska di Stravinskij, è lecito pensare che anche Shostakovich e Stravinskij avessero in mente quelle canzoncine. Al centro del programma stava il Concerto n. 3 di Rachmaninov, con cui il ventiduenne pianista coreano Seong-Jin Cho si presentava la pubblico romano. I giovani virtuosi hanno una speciale simpatia - che confessiamo di non condividere - per questo pezzo, che consente loro di sfoggiare la loro tecnica e la forza delle loro dita e di mascherare eventuali carenze quanto a maturità interpretativa. Cho di tecnica ne ha da vendere e risolve senza alcun patema i passaggi diabolici, lunghissimi e faticosi che in questo Concerto abbondano, mettendoci per di più una forza sovrumana, aiutato in questo dal possente pianoforte Fazioli. E all'occorrenza è capace anche di delicata cantabilità. Ma tutto senza calore, senza vibrazione, senz'anima. Ora tutto si può dire di Rachmaninov tranne che manchi di sentimento o, ad essere cattivi, di sentimentalismo tardoromantico: di questo nel pianista non c'era traccia, ma per fortuna ci pensava Gergiev. Come bis Cho ha scelto il Preludio op. 8 n. 12 "Patetico" di Skrjabin, che dei nostri vicini di posto hanno attribuito senza esitazione a Rachmaninov, comprensibilmente, perché Cho stesso lo ha scambiato per Rachmaninov, suonandolo senza lo slancio febbrile e visionario di Skrjabin. Ma è giovanissimo e ha doti sensazionali, lasciamogli il tempo di crescere.

Interpreti: Seong-Jin Cho, pianista

Orchestra: Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Direttore: Valery Gergiev

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